‘One Piece’, il live-action non prende davvero il largo 'One Piece', la recensione del live-action NetflixRolling Stone Italia
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‘One Piece’, il live-action non prende davvero il largo

L'adattamento Netflix del celeberrimo manga di Eiichirō Oda (e della successiva serie anime) ha la giusta energia e l'azione è molto curata, ma gli episodi sono eccessivamente lunghi e si perdono in troppi retroscena che appesantiscono la narrazione

‘One Piece’, il live-action non prende davvero il largo

Emily Rudd (Nami), Iñaki Godoy (Monkey D. Luffy), Mackenyu Arata (Roronoa Zoro)

Foto: Casey Crafford/Netflix

Un paio d’anni fa Netflix ha lanciato Cowboy Bebop, adattamento live-action dell’amato anime giapponese sui cacciatori di taglie spaziali nel XXII secolo. Mi era sembrata una nuova versione vivace ed emozionante, ma devo ammettere che non avevo mai visto l’originale. A quanto pare, il pubblico più interessato era composto dai fan dell’anime, e a loro non era piaciuto nessuno dei cambiamenti. Non è stata dunque una sorpresa che lo streamer non abbia voluto una seconda stagione.

Ora arriva il secondo tentativo della piattaforma di realizzare la stessa idea con One Piece, anche questa versione live-action della lunghissima serie di manga e anime su Monkey D. Rufy, un implacabile ottimista convinto di essere destinato a diventare “re dei pirati”, anche se non è chiaro cosa comporterebbe un titolo del genere. I produttori hanno persino detto di aver imparato la lezione dal fallimento di Cowboy Bebop, in particolare che è essenziale tentare di restare il più possibile fedeli al lavoro del creatore di One Piece Eiichirō Oda.

Ho sempre pensato che i diversi media abbiano esigenze diverse, che quello che funziona bene in un formato non si traduca automaticamente in un altro e che gli adattamenti che seguono pedissequamente il materiale originale possano assomigliare, anche per spettatori alle prime armi, più a repliche di un museo delle cere anziché a storie vitali di per sé. Ma, ancora una volta, qui mi approcciavo alla cosa senza nessuna conoscenza pregressa, a parte vedere le immagini di Rufy e dei suoi amici che dominavano la sezione manga di tutte le librerie e biblioteche che frequento da anni.

Ecco la cosa divertente: ho guardato tutti gli otto episodi della prima stagione di One Piece e ho avuto reazioni più contrastanti rispetto a Cowboy Bebop, godendomi molto alcune parti e sperando che altre finissero velocemente. Quindi, per curiosità, sono tornato a guardare i primi quattro episodi dell’anime. Ovviamente è un campione piccolissimo di una serie animata da oltre 1000 episodi, ma copre gran parte dello stesso immaginario dei primi episodi live-action. E dopo averli finiti, con mia sorpresa sono arrivato a due conclusioni:

1. Il nuovo One Piece è per molti versi incredibilmente fedele alle prime parti dell’anime (se non al manga, che non ho letto);

2. Le parti che mi sono piaciute di meno sono quelle che si discostano di più dall’anime.

ONE PIECE | Trailer ufficiale | Netflix

Lo so, lo so. “Gli adattamenti dovrebbero essere liberi di costruire il proprio prodotto!” è una delle mie battaglie più frequenti. Ma le serie di solito non durano più di 1000 episodi, a meno che i loro team creativi non sappiano bene cosa stanno facendo. Quindi forse non dovrei essere scioccato dal fatto che gli showrunner del live-action, Matt Owens e Steven Maeda, possano tradurre ottimi spunti direttamente dal lavoro di Oda.

Cominciamo da qui. Come spiegato nel breve prologo dal grande Ian McShane, “Questo è un mondo di pirati!”. Rufy (interpretato da Iñaki Godoy) sogna da tempo di diventarlo, proprio come il suo idolo e mentore Shanks (Peter Gadiot), ma sembra irrimediabilmente non qualificato. Quando lo incontriamo, tutto ciò che possiede è una piccola barca a remi, che inizia ad affondare mentre è in alto mare. Peggio ancora, questo aspirante re dei pirati non sa nemmeno nuotare. Nonostante ciò, Rufy è così irrefrenabile, così entusiasta e così empatico verso i problemi e i sogni delle persone che incontra, che gradualmente mette su una squadra – in particolare il maestro spadaccino Roronoa Zoro (Mackenyu) e l’esperta ladra Nami (Emily Rudd) –, una nave, una mappa che potrebbe condurre al leggendario tesoro che dà il titolo a One Piece e altro ancora.

Sì, oltre ad essere un mondo di pirati, è un mondo dove le persone hanno superpoteri. Così Rufy può piegarsi, allungarsi e deviare i proiettili. Buggy (Jeff Ward), un pirata-clown che l’equipaggio incontra negli episodi centrali della stagione, possiede abilità soprannaturali e il climax della stagione vede Rufy e i suoi amici affrontare un esercito di uomini-pesce fortissimi, guidati dal feroce Arlong (McKinley Belcher III). Ci sono anche mostri marini giganti, lumache che funzionano come telefoni e altre dettagli altrettanto bizzarri che probabilmente non sarebbero mai stati immaginati se fosse nata come storia live-action, ma che funzionano abbastanza bene nell’adattamento.

È tutto divertente e pieno di energia, e l’azione è molto ben coreografata, girata e montata. Dobbiamo credere che Zoro sia uno dei più grandi spadaccini del mondo (*), che le abilità da Mr. Fantastic di Rufy gli permetterebbero di confrontarsi faccia a faccia con esseri come Arlong, e che gli altri membri dell’equipaggio (inclusi gli ultimi arrivati ​​Usopp e Sanji, interpretati rispettivamente da Jacob Romero e Taz Skylar) siano abili combattenti a pieno titolo. E il modo pulito e chiaro in cui vengono presentate le scene di combattimento riesce a raggiungere questo obiettivo.

(*) Mackenyu ha il DNA dalla sua parte, visto che suo padre era la leggendaria star del cinema di arti marziali Sonny Chiba.

È anche una serie divertente e bizzarra, con un tono malizioso che riconosce quanto tutto questo debba sembrare strano (e Rufy ridicolo) alle persone che non ne hanno mai frequentato il mondo. L’energia della costruzione dell’universo di One Piece e la chimica tra i personaggi sono sufficienti per portare avanti le cose all’inizio. Ma una volta svanita la novità, arrivano i problemi.

Il primo è che gli episodi sono troppo lunghi, e non ne hanno motivo. La prima puntata dura 64 minuti e gli altri non sono tanto più corti. In alcuni casi combinano le trame di due episodi anime consecutivi, ma le singole puntate sembrano comunque esagerate.

Ma il problema più grande, correlato a questo, è che Owens, Maeda & C. usano molto di questo tempo bonus per scavare più a fondo in questi personaggi e in questo mondo di quanto giustificabile in base ai risultati di questa stagione. Tutti hanno un retroscena tragico, soprattutto Rufy, e infatti ci soffermiamo molto su di lui da bambino (impersonato da Colton Osorio) mentre cerca l’approvazione di Shanks. L’obiettivo, a quanto pare, è quello di farci voler bene all’equipaggio nello stesso modo in cui Rufy si è affezionato a loro. Ma questa necessità di risonanza emotiva sembra in contrasto con il resto del materiale, e in particolare con la caratterizzazione di Rufy versione giovane adulto.

Non è giusto lamentarsi del fatto che la performance di Godoy sembri – nella migliore delle ipotesi – scarsina, dal momento che gli viene chiesto di recitare soltanto sui due binari: autoesaltazione allegramente delirante e, a volte, giusta indignazione a nome dei suoi amici. Rende bene entrambe le emozioni, ma Rufy è un personaggio fondamentalmente generico e buffo in questo racconto, e tutti questi tentativi di dargli sfumature e intensità sembrano totalmente in contrasto con il materiale e con la natura del personaggio principale. Più andiamo avanti con la stagione, più cose sappiamo su ciascun membro dell’equipaggio, più One Piece si trascina.

Lo ripeto, ho visto solo una piccola parte dell’anime e non ho letto nessuno dei manga. Per quanto ne so, anche le altre versioni alla fine diventano più drammatiche. Se è così, presumo che lo facciano meglio e trovino modi per evitare quello scompenso improvviso di tono che arriva presto e spesso qui. Le parti migliori del live-action sono, come i primi episodi dell’anime, deliberatamente leggere e orgogliosamente sciocche. E ogni volta che la serie mira alla profondità, sembra invece appesantita e va contro i propri interessi.

Ci sono anche momenti e immagini singole che sono, anche ai miei occhi inesperti, usati per evocare la loro ispirazione bidimensionale. Forse, alla fine, è tutto ciò di cui il pubblico ha bisogno, pensiamo a quanti soldi hanno guadagnato i remake “letterali” in live-action o CGI dei classici Disney. Dal punto di vista creativo, però, One Piece ha dovuto lavorare di più per identificare esattamente il motivo per cui le versioni precedenti avevano funzionato, quali elementi potevano essere importati più facilmente nel live-action, quali cambiamenti sarebbero stati più fluidi. Non è necessario che la serie sia plasmabile come Rufy, ma forse il prodotto finito è un po’ troppo rigido.

Da Rolling Stone US

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