'Mindhunter' lancia il sottogenere crime dell'interrogation porn | Rolling Stone Italia
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‘Mindhunter’ lancia il sottogenere crime dell’interrogation porn

La discesa agli inferi di Holden Ford continua con una stagione più lenta, compassata, dedicata alle straordinarie performance degli attori (tra cui Damon Herriman, nel ruolo di Charles Manson come con Tarantino) e all'esplorazione del confine tra sanità mentale e follia

‘Mindhunter’ lancia il sottogenere crime dell’interrogation porn

La serie televisiva Mindhunter, prodotta e in parte diretta da David Fincher, pur continuando a correre lo storico rischio della prossimità SEO con un sito non specializzato in menti criminali, bensì in mamme peccaminose, per la seconda stagione ha deciso di osare meno, spiegare di più e concedersi 9 nuove puntate finemente cesellate per produzione e scrittura, ma piuttosto rilassate nell’avanzamento verso il cuore concettuale e narrativo dell’intera serie (che si prospetta, ora più che mai, lunga).

Mindhunter 2 è ambientata tra il 1978 e il 1981, riprendendo da dove la prima stagione si era interrotta. Vi troviamo conferma definitiva, se ce ne fosse stato bisogno, che la serie è il racconto della descentio ad inferos di Holden Ford, pioniere dell’uso della profilazione psicologica criminale per investigare o prevenire delitti (il personaggio è liberamente ispirato alla vera storia dell’ex FBI e scrittore John Douglas; l’inventore, fra le altre cose, dell’espressione serial killer e di interi canali del pacchetto SKY). Grazie ai colloqui che riesce a ottenere con i più celebri e dissennati pluriergastolani nordamericani — tra cui i graditi ritorni del Co-Ed Killer e di David Berkowitz (Figlio di Sam) e il debutto di Charles Manson (interpretato dallo stesso Damon Herriman che gli ha ridato vita nell’ultimo Quentin Tarantino, C’era una volta… a Hollywood) — Ford continua a perfezionare il metodo che ha elaborato con il collega Bill Tench, raro caso di Sancho Panza leaderistico. Il problema è che, per ogni passo in avanti che fa, scientificamente, con le interviste, Ford ne fa due all’indietro rispetto alla sua sanità mentale.

Al centro dell’universo di Mindhunter resta saldamente la mappa, da ridisegnare in continuazione, dei confini tra salute e malattia mentale, con un paio di significativi approfondimenti. Fino a che punto chi si occupa professionalmente, giorno per giorno, di un’aberrazione — un po’ come fece Gianluigi Paragone con i Cinque Stelle — può essere immune da quella distorsione? Il credo di fondo di Mindhunter è tutto qui: a partire da un certo punto del Novecento, il mondo non ha più senso. Allora, anche gli omicidi cominciano ad avere moventi più hipster della gelosia o dei soldi. E particolarmente quelli seriali.

Mindhunter ricomincia con il nostro Holden legato mani e piedi a un letto d’ospedale. È convalescente dall’attacco di panico procurato dal precedente finale di stagione: l’abbraccio da parte di Ed Kemper — 2,06 metri di altezza e 145 di quoziente intellettivo — il mutilatore, necrofilo e cannibalesco, di una decina di ragazze che si era mostrato molto più affettuoso con l’agente speciale che sembrava capirlo. È un segno chiaro e per niente ottimistico di quello che dobbiamo aspettarci, in futuro: sovrapporre, fisicamente ed emotivamente, profilatore e killer, psicologo e psicotico, non promette benissimo per Holden. Chissà se diventerà mai uno di loro, contraendo la loro malattia un poco per volta, ma non mitridaticamente. Ne sapeva qualcosa Debbie, la fidanzata che lo lascia nella prima stagione perché, sostanzialmente, non riusciva a capire se fosse troppo navigato come detective o troppo incapace come maniaco sessuale.

Appena rientrato dall’ospedale, prescritta la giusta dose di ansiolitici, è tutto più rassicurante. Il rapporto conflittuale che legava Holden al capo/padre Shepard, nella prima stagione, ora è sostituito da quello con un capo/giovane nonno, Gunn. Il quale, finalmente, dimostra di credere in lui, nelle sue intuizioni, pur sapendo che alcune rasentano la follia, ma comunque approva, finanzia, espande. Il team esce dal basement e comincia a giocare coi grandi. La sempre acuta Wendy rompe il silenzio in ascensore, facendo un vero e proprio recap in-house, dando la linea, ed è una linea Amleto/Vasco: “Tutte le grandi cose sono create nello spazio tra il metodo e la follia”.

Mentre vanno avanti gli studi e le paturnie, diventano più frequenti le occasioni in cui Ford e Tench riescono ad applicare le loro teorie. Il caso più importante cui contribuiscono è quello del killer di bambini ad Atlanta, fra il ’79 e l’81. L’indagine, distribuita su più puntate, è una lunga, straordinaria composizione ad anello che presenta una visione acuta e struggente, sia fotograficamente che antropologicamente, dei conflitti sociali in Georgia a dieci anni dalla morte del Dr. King.

Ford e Tench, studiando come pittori i killer da ritrarre per il loro archivio, sono due casi di investigatore come artista. Ma corrispondono a due tipi differenti di artista. Bill crede nella verosimiglianza, fa più compromessi con la realtà. Holden è più concentrato sulla realtà parallela dell’arte. Tench è esperienza, Ford è istinto. Bill è l’everyman che manda avanti la baracca, Holden il geniale casinista. È meglio un detective che sa raccontarti quello che vede o uno che vede l’invisibile? La risposta, pragmatica e un po’ democristiana che Mindhunter prova a dare è che è molto meglio, almeno per adesso, se lavorano insieme, un po’ come Pesa-di-più e Pesa-di-meno nella fiaba di Gianni Rodari.

Il fatto è che, come si vedrà nel resto della stagione, anche lo studio più approfondito della realtà può sfuggire di mano all’artista più attento e motivato. La sigla di Mindhunter, come tutte le sigle fatte davvero bene, è un manifesto della dottrina fondamentale della serie che preannuncia. C’è la calma apparentemente olimpica con cui si prepara il registratore per le interviste; la drammatica divergenza con le fotografie delle vittime, che non sono mai soltanto conseguenza di quello che viene esposto, anche quando viene estorto al killer nel modo più naturale e socratico. C’è l’illusione di afferrare qualcosa, di capirla. C’è la vana speranza che quei metri di nastro magnetico perfettamente teso possano coprire gli infiniti meandri e distorsioni della mente. E come i killer sono dipendenti dai loro rispettivi modus operandi, come Ford e Tench patiscono l’astinenza da interrogatorio, così noi siamo attaccati al pulsante del prossimo episodio, schiavi della ripetizione. Quando si cerca di rilevare l’incommensurabile, il sublime, l’orrore, è chiaro che i misuratori fanno cilecca, e deve intervenire qualcos’altro.

Il momento dell’interrogatorio si attende come si attende la scena di sesso nel cinema porno con dialoghi, ancora più che nella prima stagione. È un nuovo sottogenere crime: interrogation porn. Le guest star più forti, come l’immenso Cameron Britton, la Moana di Mindhunter — che ha già vinto un Emmy per il suo Kemper — sanno basare la loro performance su intermittenze da autentico threesome, come quelle che si innescano tra sguardi e manipolazioni mentali quando lui guarda Bill (che chiama per nome di battesimo) per dire qualcosa a Holden (che chiama per cognome, o non chiama). È particolarmente porno anche il modo in cui vengono gestite le scene in cui non ci sono le star principali. Come nella quarta puntata, quando un interrogatorio viene condotto da Wendy e il timido e impacciato collega Greg. Fanno il loro compitino, per carità, ma chiaramente non vogliamo altro che tornino sul ring Rocco e Nacho.

Mindhunter - Stagione 2 | Trailer ufficiale | Netflix Italia

Purtroppo le altre linee narrative della stagione sono più scarne ed episodiche, sebbene anch’esse prodotte con la consueta cura: una nuova relazione sentimentale per Wendy Carr, l’accademica del team, e i gravi problemi familiari di Tench. L’augurio — e il timore, nel caso della tendenza a interpretare disinvoltamente i simboli cristologici, da parte del figlio di Tench — è che questi due filoni siano funzionali a predisporre più importanti sviluppi futuri. Altrimenti, sarebbe un peccato rinunciare a qualche minuto in più con Manson o Berkowitz.

Il resto del genio della produzione è nei dettagli. La colonna sonora con quei gridolini synth. Cease to exist di Charles Manson ascoltata, in ufficio, preparandosi all’incontro, dallo stesso registratore con cui si sbobinano gli interrogatori. Il testo della dedica che Manson fa sulla copia di Helter Skelter di Holden. La scena in cui Holden porta la croce — che è anche la sua croce — durante la marcia per i bambini ad Atlante. Il nome in codice che, a un certo punto, si dà: Model T, che ricorda spericolatamente il self branding del mostro che aveva appena intervistato: Figlio di Sam, a cui non era andato giù l’essere identificato dai media solo con il calibro della pistola che usava, sebbene fosse un generoso .44.

Con calma e sangue freddo Mindhunter si pone alla testa della fronda intellettualistica del crime televisivo (seguita a strettissimo giro da Manhunt: Unabomber), dimostrando una volta per tutte agli appassionati del genere — e al restante 5% della popolazione mondiale — che gli unici effetti speciali di cui non potrà mai fare a meno sono solo sceneggiatura e interpretazioni.

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