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Mike Bongiorno, lo straniero “sacro” che ha modellato l’identità degli italiani

A 10 anni dalla scomparsa, il conduttore resta un'icona. Lui che ha fatto per il senso comune di questo Paese quanto Sordi, ed è stato capace di incarnarci e stigmatizzarci nell'unica cosa in cui siamo seri: giocare

Solo un uomo ha saputo far diventare le sue gaffe – vere, presunte o ammantate di leggenda metropolitana – un modo di dire. “Lei mi cade sull’uccello”, ormai, è parte del nostro vocabolario, pur essendo, giura la mitica signora Giuliana Longari, una fake news (pare che in quella puntata l’unico strafalcione di Bongiorno, che da uomo di spettacolo pignolo e preparatissimo, c’è da giurarlo, li preparava ad hoc, fosse su Paolo VI, letto come Paolo vi) che peraltro le ha pure creato non pochi problemi.

Solo un uomo poteva maltrattare dei bambini e farsi amare per questo, anche grazie all’imitazione geniale di Rosario Fiorello: le sue lavate di capo ai giovanissimi concorrenti di Genius rimangono epiche, ma facevano parte della sua professionalità che pretendeva uno standard alto da tutti. E se i piccoli erano lì in quanto “genius” allora dovevano essere all’altezza del format.

Fra i pochi ad avere un programma che porti il suo nome, quel TeleMike che ci ha accompagnato per anni, prima de La ruota della fortuna che tenne a battesimo Matteo Renzi, segnalato al conduttore italoamericano da Nicola Bovoli, zio dell’ex premier e inventore del telecomando Quizzy, che, indovinate un po’, fu lanciato proprio dal nostro Mike, nel 1993, sul Corriere della Sera (costava 39.800 lire alla Standa, aveva un suo periodico, TuttoQuizzy, che partì col nostro in copertina e porto la rivoluzione dell’interazione in tv, anche se fu un flop imbarazzante).

Solo Mike è rimasto talmente iconico anche da morto, da rimanere 10 anni dopo la sua scomparsa riconoscibile per quello stile e per quella voce imitata da tutti, oltre che da Fiorello anche da Alighiero Noschese (che trasformò il mitico “allegriaaaa” in “allergia!”) e Gigi Sabani, che cantò con la sua voce persino al festival di Sanremo. Solo lui poteva chiedere al frontman dei Depeche Mode “Are you a boy or a girl?” in una loro ospitata a Superflash, lui che peraltro era un collega (ha scritto, come coautore, Donna donna mia di Toto Cotugno e Amico è di Dario Baldan Bembo, tra le altre).

Solo un uomo, nel cerchio magico di Silvio Berlusconi, ha continuato a tifare per la propria squadra del cuore: la Juventus. Solo lui, purtroppo, tra gli eroi della tv, ha subito l’oltraggio del trafugamento del proprio cadavere, quasi fosse un faraone, qualcuno che avesse mantenuto intatto il proprio valore anche post mortem, e la reazione sconvolta di un Paese intero alla notizia dice molto di quanto, quell’uomo, fosse diventato un simbolo, di quanto fosse diventato familiare all’Italia.

È impossibile fare un ritratto fedele della biografia di Mike Bongiorno, immenso nel lanciare format – Lascia o raddoppia? divenne non solo un successo proiettato nei cinema, ma anch’esso un modo di dire (come Rischiatutto, d’altronde) –, così come nell’amare la tv tanto da andare in onda, come concorrente, appena 5 giorni prima della propria morte. Quel ragazzo che rischiò di morire nella seconda guerra mondiale, salvato solo dal suo passaporto americano, quando era già stato messo al muro, quell’uomo che nell’immediato dopoguerra e in seguito ad alcune importanti collaborazioni americane trovò la via di Mamma Rai grazie a Vittorio Veltroni (sì, proprio il papà di Walter) e che grazie al suo successo più grande recitò persino con Totò, in Totò lascia e raddoppia, meriterebbe un romanzo, non solo un ritratto.

Di Bongiorno, forse, possiamo raccontare la capacità che ha avuto di entrare nel nostro immaginario. Forse, perché ancora adesso di quell’uomo non si ha l’esatta percezione di quanto e come abbia influito nella coscienza popolare (e pop) di un’Italia che con lui ha attraversato boom e crisi, ha sempre sperato di essere migliore e in un sogno italiano all’americana che, attraverso il merito e alla preparazione, potesse regalare milioni alla gente comune. Lui ci credeva, ed era questa la sua forza: basti ricordare quanto fosse sacrale il suo rispetto per il gioco e le sue regole, quanto fossero violente le sue reazioni alla mancanza di professionalità delle vallette o agli inganni dei concorrenti o agli scherzi dei colleghi o degli ospiti (vedi un Barbareschi insultato in studio, così come Sgarbi per aver deriso la perdita delle case degli abitanti alle pendici dell’Etna) e come in quei casi la sua educazione proverbiale diventasse, e tutti lo ricordano, furia cieca condita di parolacce e imprecazioni indicibili.

Mike Bongiorno ha portato la tv moderna nel nostro Paese, ha il merito (o la responsabilità) della crescita come imprenditore televisivo di Silvio Berlusconi, di cui intuì il talento ma da cui ottenne la sua delusione più cocente quando Sua Emittenza, forse cambiato e di sicuro condizionato da pessime amicizie, lo trascurò, ignorò e smise di chiamarlo, sia come professionista e sodale che come amico. Persino il premio Oscar Paolo Sorrentino, in un film estremo e feroce come Loro, consegna la sua icona, rispettosamente, quasi teneramente a un Ugo Pagliai che lo disegna, in poche pose, con pudore e dolce ironia.

Perché Bongiorno è stato il fratello maggiore, lo zio, il nonno d’Italia, il maestro Manzi dei quiz, il gran cerimoniere degli anni ’60 e ’80 di tutti noi (i decenni delle grandi illusioni italiche), ha incarnato l’uomo comune con i suoi scivoloni che erano in realtà giochi di parole e inside joke da consumato re del palcoscenico catodico: l’errore divertente, irrituale, innocente e un po’ irrispettoso crea empatia, come insegnano i bambini che non a caso adoravano Mike. Lo capimmo, che ci prendeva in giro con le sue gaffe, quando con fare civettuolo rivelò che l’antenato che diede vita alla dinastia dei Bongiorno, Landro, fu gran Scopatore di Corte per Manfredi di Sicilia, aggiungendo solo dopo una pausa che allora così si appellava il primo maggiordomo del regnante.

Strano tipo Nicolas Salvatore Bongiorno, autoironico e umile, ma anche permaloso se invece di giocare con lui (game e to play erano parole fondamentali e fondanti della sua etica ed epica) ti prendevi gioco di lui. Portò in Italia un’informalità sconosciuta, ma anche un rigore sorridente e un po’ pedante, era americano in Italia e italiano in America, divenne un borghese meneghino senza smettere di essere yankee. E per la nostra identità questo “straniero” ha fatto quanto Alberto Sordi, capace di incarnarci e stigmatizzarci nell’unica cosa in cui siamo seri: giocare.

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