All’s Fair
Disney+
Un’idea che poteva anche avere potenziale – un team di avvocatesse donne dalla parte delle donne – viene massacrata da una scrittura iper-patinata e da battute spesso vuote come lo sguardo di Kim Kardashian quando le pronuncia. Ryan Murphy arruola l’icona del capitalismo cosmetico (e un cast stellare: Glenn Close, Naomi Watts, Sarah Paulson and counting) per un legal drama campissimo e tirato a lucido tra tailleur color champagne e frasi motivazionali inizio anni 2000, dove tutto è così esagerato e sbagliato da sembrare una parodia intenzionale. Ma che, in fondo, non riesci a smettere di guardare. To be continued…
Fubar 2
Netflix
La seconda stagione dell’action-comedy svuota quasi del tutto lo spunto dello spionaggio come affare di famiglia, privilegiando gag disperse e situazioni sgangherate. L’idea del “team CIA padre-figlia” si diluisce in battute forzate e cambi di tono che non riescono a reggere il doppio registro tra commedia e azione, ripetendo schemi già visti. Anche con star come Arnold Schwarzenegger e Monica Barbaro, siamo più dalle parti di un cartoon anni ’90 che da quelle di un thriller moderno.
Good American Family
Disney+
Starring Ellen Pompeo, segue una famiglia americana travolta da un caso giudiziario e mediatico, ma sembra sempre indecisa se prendere posizione o limitarsi a sfruttare il sensazionalismo. È una serie che ammicca al true crime senza il coraggio di sporcarsi davvero le mani, che scambia la complessità morale per ambiguità di comodo. Più che interrogare l’idea stessa di “famiglia modello”, la usa come cornice rassicurante per non dire nulla di scomodo. E quindi: a che pro?
Ironheart
Disney+
L’ambizione era quella di rinnovare il Marvel Tv Universe, e invece Ironheart finisce per restarne prigioniera. Troppo frammentata, con personaggi mai davvero messi a fuoco e un tono costantemente indeciso tra teen drama e racconto supereroistico, la storia di Riri Williams non trova mai una vera urgenza narrativa. Lo spunto c’era, ma viene soffocato da un immaginario stanchissimo e da conflitti risolti in automatico. Più che un passo avanti, sembra il sintomo di un universo che continua a produrre senza sapere più perché.
Monster – La storia di Ed Gein
Netflix
Altro giro, altro Ryan Murphy. Come trasformare un caso reale disturbantissimo in un racconto incredibile nel senso letterale del termine: impossibile da credere. Il terzo capitolo dell’antologia Monster fallisce proprio dove dovrebbe colpire, annacquando fatti e psicologie in una narrazione piatta e perdendosi in un estetismo vuoto. E questo nonostante Charlie Hunnam. Un true crime che sfrutta l’orrore come effetto visivo senza mai interrogarsi sul suo significato.
Prime Target
Apple TV+
La promessa di un thriller politico internazionale si annulla in una storia confusa e senza vera suspense. Al centro c’è Edward Brooks (Leo Woodall di The White Lotus 2 e Bridget Jones – Un amore di ragazzo), giovane matematico coinvolto in una cospirazione che il plot non riesce mai a rendere davvero credibile. I colpi di scena si accumulano senza costruire un arco drammatico solido e il risultato è un prodotto elegante in superficie, ma narrativamente vuoto e facilmente dimenticabile. Sì, anche Apple TV+ può sbagliare.
Pulse
Netflix
Un medical drama senza identità propria, appiattito su cliché già visti e sempre in ombra rispetto a prodotti simili. Pulse non riesce a distinguersi né per scrittura né per impatto emotivo: la narrazione è disorganica, i personaggi sono poco incisivi e il filtro “soap da ospedale” prevale su qualunque tensione reale. Un wannabe Grey’s Anatomy che non funziona mai davvero.
Il rifugio atomico
Netflix
Dopo La casa di carta, la formula di Álex Pina ed Esther Martínez Lobato qui gira a vuoto. Siamo in un bunker sotterraneo in cui un gruppo di sopravvissuti ricchissimi si rifugia dopo un evento catastrofico globale. La tensione artificiale però sostituisce la costruzione dei character sullo sfondo di una distopia che resta un pretesto mai davvero interrogato e un racconto che procede per colpi di scena meccanici. Più che un mondo post-apocalittico, sembra un esercizio di stile ormai stanco.
Suits LA
Sky e NOW
Il distaccamento losangelino sfrutta l’eredità di Suits senza però avere nulla da dire di proprio: è derivativa e plain, con casi legali scontati e dinamiche da telefilm di routine più che da spin-off ambizioso. I protagonisti faticano a emergere fuori dall’ombra del materiale di partenza e il contesto televisivo della Città degli Angeli non aggiunge mai una specificità alla storia, rendendo il tutto indistinguibile da una qualsiasi serie procedural generica.
The Summer I Turned Pretty 3
Prime Video
Il triangolo sì, trascinato all’infinito. Anziché crescere con Belly & soci per un capitolo più “adulto”, il teen-fenomeno dell’anno si limita a riciclare le stesse indecisioni sentimentali, dilatando all’infinito un racconto già visto. Una soap travestita da coming of age sempre sospesa tra nostalgia e prevedibilità, tra scenari vacanzieri e drammi che restano adolescenziali senza mai un vero scossone emotivo. Team Conrad o Team Jeremiah? Team basta. E invece: faranno pure il film.
