‘L’arte della gioia’: la recensione della serie di Valeria Golino a Cannes 2024 | Rolling Stone Italia
La cumbia della gioia

‘L’arte della gioia’, le donne di Valeria Golino si prendono tutto

L’attrice e autrice adatta il caso letterario di Goliarda Sapienza e ne fa una serie (in anteprima a Cannes, poi al cinema e quindi su Sky e NOW) che è un inno alla libertà dei corpi femminili. Elegante, mai arrabbiata, sempre gioiosa. E con un cast eccezionale

‘L’arte della gioia’, le donne di Valeria Golino si prendono tutto

Foto: Paolo Ciriello

A un certo punto Valeria Bruni Tedeschi, cioè la principessa Brandiforti, dice una cosa in cui sta tutto il mondo dell’Arte della gioia: “Per me siamo noi vivi, i poveri”. Perché nel romanzo – rifiutato, postumo, caso letterario: lo sapete – di Goliarda Sapienza come nella bellissima serie che ne ha fatto Valeria Golino (adattata con Francesca Marciano, Valia Santella, Luca Infascelli e Stefano Sardo, in anteprima a Cannes e nelle sale in due parti il 30 maggio e il 13 giugno prima di arrivare su Sky e NOW), ecco, lì come qui c’è questo senso di una vita che scalcia, che divora, che vuole tutto.

È Modesta che, a dispetto di questo nome che sembra già una condanna, una posizione (oggi si preferisce posizionamento) nella società, vuole tutto. Che, nata povera e geneticamente cattiva, ma nel senso di prigioniera, brucia quello che le sta attorno per germogliare, ginestra leopardiana, moloch femminista ante litteram. Che finisce in convento e anche lì ribalta l’ordine, e poi di nuovo fa saltare tutto quando arriva nella casa della nobildonna citata all’inizio, mentre sullo sfondo ribolle un’époque non belle, almeno non da noi, sconquassata dai moti politici e sociali.

Valeria Golino dirige Tecla Insolia sul set. Foto: Valentina Glorioso

Ma il vero atto politico qui passa attraverso il corpo, che anch’esso si vuole prendere tutto. A Sant’Agata “bruciarono le carni, strapparono i seni”, dicono le suore a Modesta quand’è solo una bambina, e quella sembra la condizione di ogni donna: nascondersi o bruciare (ancora). Sono “povere creature!” che devono liberarsi, e Modesta lo fa per tutte, tutte quelle che sono costrette a zittire il desiderio, l’ambizione, l’esistere al di là del ruolo, violentate o maritate, madri o vergini, orfanelle o vedove, per sempre.

“Questa vecchiezza è un’autentica rovina”, dice sempre la principessa, travolta dall’arrivo dell’homo novus che, sorpresa!, è una donna, tenera e rabbiosa, bambina e rapace, comunque mai addomesticata. È come la ragazza di Miele, l’atto altrettanto politico con cui Valeria Golino è diventata autrice, il ritratto di quelle donne che riescono ad essere sempre qualcos’altro, anche nella loro posizione (posizionamento?) nel cinema.

Golino è una regista elegantissima – qui si affida alla fotografia di Fabio Cianchetti, al montaggio di Giogiò Franchini, alle scene di Luca Merlini, ai costumi di Maria Rita Barbera, alle splendide musiche di Tóti Guðnason e alla co-regia di Nicolangelo Gelormini – ma che mai si autocompiace, che cerca la pulizia, che si fida delle parole prima che delle immagini, e difatti come sigla finale di ogni episodio (sei in totale) ha scelto un bel pezzo di Donato Dozzy e Anna Caragnano che si chiama semplicemente Parola, e che le parole le borbotta come in una cantilena.

Nella sua Arte della gioia ha messo quello che stava nella natura del romanzo, la tradizione italiana della fiaba, dell’avventura, della filastrocca (“questo è l’occhio bello, questo è suo fratello”), facendo del viaggio di Modesta una specie di Pinocchio femmina, un Giamburrasca con la cuffietta linda che nasconde però l’eros. “La terra come l’arte sono di chi le comprende”, si legge nel romanzo, e Valeria Golino ha compreso entrambe, e le ha allacciate.

Valeria Bruni Tedeschi (la principessa Gaia) e Alma Noce (Beatrice). Foto: Paolo Ciriello

E Golino, da attrice che però nei suoi lavori dietro la macchina da presa s’è sempre fatta da parte, restando comunque presentissima, è una direttrice d’attori fenomenale. L’“altra Valeria”, l’amica di sempre, porta lo struggente mondo dei castelli in Italia che decadono, nel ritratto della sua principessa con l’ossessione del bello. E poi Guido Caprino col suo maschile sempre dirompente e qui però più che mai in crisi, Alma Noce che sembra un animale ferito, Giovanni Bagnasco che, da “invisibile”, è invece una faccia fatta per il cinema. E Jasmine Trinca, ogni volta più brava, con la sua Madre Leonora piena di timori e malizie, che sembra Deborah Kerr in Narciso nero – che torna pure in quell’orrorifica scena di notte, lassù nella torretta del convento.

Ma la sorpresa, l’investimento, l’ipoteca sulle attrici del futuro, è Tecla Insolia, un’Audrey Hepburn irruvidita dalla terra di lava che con la sua Modesta si prende davvero tutto, e che fa del corpo lo strumento per arrivare al cuore della serie. Rischia tutto, e anche per questo sembra l’unico volto possibile per questo racconto terribile e incantato, anch’esso mai addomesticato da quello che oggi ci si aspetta di vedere, e però mai arrabbiato, sempre gioioso.