È un ritorno alle origini Chief of War per Jason Momoa, in molti sensi. In primis perché torna appunto nella sua terra, con una serie da un’idea di (cit.), scritta (insieme a Thomas Paʻa Sibbett), prodotta e interpretata. «È una roba grossa. Se non riusciamo a farla bene, non possiamo tornare a casa», ha detto. E con “casa” intende le Hawaii. «Voglio rendere orgogliosa la mia famiglia, mio padre. Sono cresciuto proprio lì». C’è un tono solenne nelle sue parole, una gravità che raramente associamo all’Aquaman versione tiki-bar. Ma Chief of War (dal 1 agosto su Apple TV+, che peraltro è pure il giorno del compleanno di Momoa: auguri!) è una cosa seria. È il racconto epico della resistenza dei nativi hawaiani contro l’invasione coloniale, una storia mai raccontata in questo modo, da chi quelle radici le porta tatuate sulla pelle (letteralmente).
Ed è anche un ritorno all’energia del personaggio di Game of Thrones a cui deve quasi tutto: Khal Drogo, re dei Dothraki, marito di Daenerys e involontario sex symbol del fantasy grimdark. Un character instant iconico (pardon) che Jason ha interpretato con la fisicità e il furore di un dio antico, uno che comanda cavalli e tribù, e che riesce a dire (anzi, a ringhiare) “moon of my life” senza sembrare matto. Il pubblico è impazzito, la critica l’ha adorato ed Emilia Clarke è diventata sua BFF.
Ora veste i panni (pochi, anzi, pochissimi: la battuta di pesca in perizoma, in cui prende al lazo uno squalo!) di Kaʻiana, il chief of war – appunto – che cerca unificare l’arcipelago prima della colonizzazione statunitense. Di nuovo l’immagine di leader guerriero, ma anche custode, narratore, che guarda indietro per andare avanti. È lo stesso archetipo, ma con meno eye-liner e calato dentro una narrazione storica, emotiva e familiare per Momoa. Che lavora con la stessa dedizione, ma con una consapevolezza diversa: non più solo figura fisica imponente, ma voce autentica di legami e radici. E, brace yourselves, non è l’unico parallelo con GoT: come nella serie-fenomeno tutti continuavano a discutere su chi avrebbe governato Westeros, ignorando il pericolo ben più mortale rappresentato dagli Estranei, pure qui, alle Hawaii, gli aspiranti re indigeni in lotta sono ignari della minaccia esistenziale rappresentata dai marinai bianchi che vogliono strappare loro quel paradiso (c’è una battaglia epica tra due clan ai piedi di un vulcano attivo, che è una delle scene più clamorose dello show). Insomma, in Chief of War Momoa incarna, su più livelli, un Drogo rivendicato, culturalmente e artisticamente: un guerriero con una storia vera, un passato coloniale e una missione. «L’ho fatto per il piccolo Jason», dice Momoa. Volevo vedermi sul grande schermo. Volevo vedere le nostre storie raccontate, la nostra lingua parlata, i nostri volti rappresentati. Da bambino avevo solo immagini nei musei, qualche dipinto. Adesso volevo creare qualcosa che potesse ispirare le nuove generazioni».

Jason Momoa in ‘Chief of War’. Foto: Apple TV+
Difficile immaginare Momoa senza i suoi tre marchi di fabbrica: i capelli lunghi, i tatuaggi tribali e quella voce baritonale. Eppure la sua carriera ha avuto inizio nel 1999 con Baywatch, dove faceva il bagnino con il ciuffo, la faccia da angelo e il fisico ancora incontaminato da wrestler in progress. Poi North Shore, ma sopratutto Ronon Dex (un altro guerriero!) in Stargate Atlantis. Nel 2011 Game of Thrones cambia tutto. Ma poi segue una fase che chiameremo – ehm – “di ricerca”, tra reboot (Conan il barbaro), sequel improbabili (Bullet to the Head, Braven) e film indipendenti che nessuno ha visto, fino al colpo grosso: Aquaman. Il supereroe marino della DC Comics, che sulla carta veniva spesso ridicolizzato (biondo, in calzamaglia arancione), con Jason Momoa diventa una rockstar oceanica, amante della birra e delle pose da poster. Il primo film incassa più di un miliardo. Il secondo meno (molto meno), ma a quel punto il marchio è fatto: Momoa è una star globale. Figo, muscoloso, ironico. Eppure diverso. Più punk di The Rock. Più gentile di Vin Diesel. Più umano di Thor.
E poi ancora gli esperimenti (come See, sempre su Apple TV+) e le incursioni nella commedia e nell’action muscolare, sempre con quel misto di autoironia e fisicità da dio polinesiano col cuore tenero.

Jason Momoa nei panni di Aquaman. Foto: Warner Bros.
Nel frattempo la vita privata vita di Momoa pare una specie di romanzo illustrato di Vanity Fair: ha sposato Lisa Bonet (sì, quella Lisa Bonet), con cui ha formato la coppia più cool e boho di Hollywood – ciocche, cristalli, figli con nomi evocativi e abiti vintage – ed è diventato il patrigno di Zoë Kravitz. Fino alla separazione, dolorosa ma gestita con una classe che nemmeno Gwyneth Paltrow nel suo momento “conscious uncoupling”. Ora è legato all’attrice Adria Arjona, conosciuta sul set, e i due sembrano felici, complici, in perfetto equilibrio tra fiamme tropicali e privacy.
E intanto uno dei due figli avuti con Bonet, Nakoa-Wolf Manakauapo Namakaeha, dal nome magnificamente hawaiano (!), interpreterà Leto Atreides II, uno dei gemelli eredi di Paul Atreides (Timothée Chalamet) e Chani (Zendaya) in Dune 3, dopo che Momoa nella saga ha impersonato Duncan Idaho, che di Paul è stato maestro di spada e mentore, con grinta da guerriero (!) spazio‑medievale e affetto da fratello maggiore. Chissà se, come il primo capitolo, vedremo quello nuovo by Denis Villeneuve prossimamente a Venezia. Intanto Jason sbarcherà di nuovo al Lido alla Mostra 2025 per presentare fuori concorso In the Hand of Dante di Julian Schnabel, thriller che parte dalla ricerca di un manoscritto del Sommo Poeta. Una scelta che sottolinea come Momoa sappia stare anche altrove, dove il cinema è autorialità e sfida.
Metà guerriero indomito, metà surfista tatuato, 100% figura iconica della serialità, con Chief of War Momoa sembra pronto a rivendicare qualcosa di più grande: la propria identità, le proprie radici, e l’eredità culturale di un popolo. Non un semplice ritorno. Un ritorno al cuore di ciò che davvero conta: le storie che contano davvero, raccontate da chi quelle storie le vive.








