‘It – Welcome to Derry’ è una serie prequel che sa come si fa una serie prequel | Rolling Stone Italia
Ya Got Trouble

‘It – Welcome to Derry’ è una serie prequel che sa come si fa una serie prequel

I fratelli Muschietti trasformano l’orrore di King in una sinfonia del male americano. E non si limitano a una nuova apparizione di Pennywise, ma provano a costruire un mondo dove la paura è qualcosa di antico e collettivo

‘It – Welcome to Derry’ è una serie prequel che sa come si fa una serie prequel

Mikkal Karim Fidler, Clara Stack, Jack Molloy Legault e Matilda Legault in 'It – Welcome to Derry'

Foto: Brooke Palmer/HBO/Sky

C’è qualcosa di meravigliosamente e intelligentemente disturbante nel modo in cui It – Welcome to Derry si apre. O almeno c’è per i cinefili, e in particolare per chi ama il musical (eccoci qua). Prima del sangue, prima che l’acqua dei tombini si tinga di rosso e che i bambini inizino a sparire tra i vicoli del Maine del 1962, siamo in un cinema. E sullo schermo c’è The Music Man: sì, quella favola color pastello che, nello stesso anno, prometteva sorrisi e felicità, banda cittadina e buone maniere, in un’America che ancora voleva credersi innocente. Solo che qui quelle note allegre non annunciano la festa, ma l’apocalisse. Ya Got Trouble, la canzone del venditore di strumenti Harold Hill, diventa una specie di contorto avvertimento, una profezia maledetta: “Ya got trouble, my friend, right here in River City!“. E Derry, la River City di Stephen King, pare già pronta a ballare sull’orlo dell’abisso.

Probabilmente non esisteva modo migliore per iniziare il prequel dell’universo di It: una storia che, prima di parlare del clown assassino, racconta come nasce la paura in un posto che sembrava felice. I fratelli Muschietti (Andy e Barbara, già dietro i film del 2017 e del 2019) e lo showrunner Jason Fuchs (lo sceneggiatore di Wonder Woman) prendono il mondo di King e lo riportano indietro nel tempo, negli anni Sessanta dell’American dream suburbano. Perché in fondo il trucco è sempre stato questo, in It: il mostro non è mai stato davvero il clown, ma la città. Pennywise è solo la manifestazione comica (letteralmente) di un’infezione capillare, Derry è un organismo vivo che si alimenta di angoscia, e l’orrore non è un incidente, è invece una struttura.

IT: Welcome To Derry | Red Band Trailer Ufficiale

La serie gioca magistralmente sul contrasto tra l’immaginario della provincia americana e il marcio sotto la superficie: le famiglie modello, la segregazione razziale, il bullismo e il sessismo sistemici. Siamo dentro un’America che canta mentre sprofonda. Come ha spiegato Barbara Muschietti: «The Music Man è tutto basato sulla paura collettiva. Sul convincere una comunità che qualcosa di terribile sta arrivando, per poi venderle la soluzione». Ecco, in Welcome to Derry (su Sky e NOW) non serve nemmeno un ciarlatano come quello interpretato da Robert Preston: la città ci crede da sola.

È un’origin story del male americano che non si limita a una nuova apparizione di Pennywise, ma si chiede: cosa succedeva prima? Perché Derry è Derry? E lo fa con la consapevolezza che il fascino di Stephen King sta in quel confine tra leggenda urbana e ferita reale, tra infanzia ed età adulta. Welcome to Derry non ripropone, per fortuna, semplicemente il mostro: prova a costruire un mondo al limite della razionalità, dove la paura non è solo fatta di jump scare ma è qualcosa di antico. E infatti Muschietti & C. non si affidano subito all’incubo più rappresentativo: Pennywise (o meglio, quello che diventerà Pennywise) aleggia come una promessa. Non è ancora il clown, ma un’entità che attraversa i corpi e le epoche, che s’insinua nelle falle del reale. In questo senso la serie è un prequel “furbo” nella migliore accezione del termine: non spiega l’origine del male (King non lo ha mai fatto davvero), ma fa vedere come si prepara il terreno.

Se It raccontava il ritorno ciclico di quel male ogni 27 anni, Welcome to Derry chiarisce che non c’è bisogno di pagliacci terrificanti quando bastano il trauma radicato, i segreti nascosti sotto la tappezzeria, la violenza domestica e, soprattutto, il silenzio degli adulti. La cittadina è un campo fertilizzato dal razzismo, dalla paura della diversità. Ci sono episodi che sembrano quasi un esperimento sociale, in cui il soprannaturale serve solo a misurare il grado di corruzione del reale, e dove la tensione si costruisce più con i dettagli che con i mostri. E, come nei romanzi migliori di King, i bambini sono ancora una volta le uniche creature capaci di vedere l’orrore per quello che è. Certo, ci sono elementi da raffinare, in particolare proprio la caratterizzazione dei più giovani (la scrittura si concentra più sull’ampiezza del racconto che sull’intimità del gruppo) e il bilanciamento fra mito e narrazione televisiva, ma lo spettacolo c’è. Welcome to Derry ha la sicurezza visiva e l’ambizione di una serie che sa di giocare con un mito, senza però lasciarsene schiacciare.

Chris Chalk in ‘It – Welcome to Derry’. Foto: Brooke Palmer/HBO/Sky

Tornando all’inizio, Ya Got Trouble non è un vezzo ironico, ma una scelta di poetica: il pezzo torna in forma diegetica e poi sottile, filtrata nei suoni dell’acqua, nei sussurri che escono dai lavandini, negli altoparlanti delle strade, nelle orecchie dei ragazzini. È una specie di colonna sonora fantasma che accompagna la discesa della città verso la follia. E la sequenza del cinema, in cui un’intera platea viene falciata da una sorta di “bambino demone” o “neonato mutante” (chiamatelo come volete), sembra uscita da un incubo lynchiano. Non perché sia visivamente eccessiva, ma perché ribalta l’immaginario collettivo del divertimento: la sala, luogo della finzione e dell’evasione, diventa il primo altare del sacrificio.

Guardare Derry nel 1962 significa guardare l’America prima del Vietnam, prima di Manson, prima di Nixon: un Paese ancora convinto che tutto vada bene, ma già infestato. Quando finalmente l’ombra del clown si manifesta (in maniera graduale, quasi rispettosa) il brivido diventa subito riconoscimento, come se Pennywise fosse il simbolo stesso del nostro terrore infantile. E poi la canzone di The Music Man ritorna, si intreccia con la risata del clown, e l’incubo trova la sua partitura. È lì che Welcome to Derry prende la sua forma definitiva: un quasi-musical sull’orrore dell’America. E Stephen King approves.