Ronciglione, Viterbo, a un’ora scarsa da Roma, è uno di quei luoghi in cui ti aspetteresti, male che vada, di essere sfiorato da un sagrestano in pandino giallo, non certo di imbatterti in mezza dozzina di auto della Scientifica in assetto da rilievi e cento comparse attraversate da infiniti sospiri, dentro e fuori la parte loro assegnata. E invece siamo qui, su un set blindatissimo e rigorosissimo, a guardare Stefano Sollima mettere in scena Il Mostro, la nuova miniserie Netflix (in quattro episodi che saranno disponibili dal 22 ottobre) dedicata al caso del mostro di Firenze.
A volte la quiete dei borghi italiani è oscena in un modo che non ha a che fare con la violenza esplicita, ma con la promessa tradita della pace. Qui il male si annida come l’umidità: non si vede, ma ti entra nelle ossa. Tutto è così curato, così decoroso, così color pesca che pare impossibile immaginare un delitto. E invece proprio lì, tra il cartello che annuncia l’ennesimo probabile gemellaggio internazionale e la fontanella che gocciola da decenni, si consuma l’indicibile. I balconi hanno i gerani, i panettieri salutano per nome, i bambini giocano col Super Santos – ma poi sopraggiunge il tramonto e comincia la seconda vita del paese: quella fatta di mormorii, finestre che si chiudono un attimo prima, sguardi che non si incrociano. In Italia non servono i boschi del Nord per partorire l’orrore: bastano tre viuzze, una pieve romanica e un campo sportivo in disuso. È la nostra specialità: nascondere l’abisso sotto la tovaglia ricamata della domenica. E intanto l’abisso, zitto zitto, apparecchia.
Quella del Mostro di Firenze è una delle storie più oscure e indecifrabili della cronaca italiana. Tra il 1968 e il 1985, otto duplici omicidi sconvolgono la provincia toscana: sempre coppiette appartate in auto, sempre la stessa arma – una Beretta calibro 22 con proiettili Winchester serie H – e sempre una ferocia crescente, con mutilazioni sessuali inflitte ai corpi femminili. Le indagini si moltiplicano, si contraddicono, deragliano: vengono arrestati contadini, voyeur, farmacisti, un improbabile trio di amici e infine Pietro Pacciani, il principale indiziato – ma mai condannato in via definitiva. Ogni pista sembra plausibile finché non si sgretola, ogni verità è provvisoria. In quasi vent’anni di indagini si susseguono investigatori, magistrati, dietrologie, rivelazioni, silenzi, e un’ossessione mediatica che diventa nazionalpopolare. Eppure, a oggi, il Mostro di Firenze resta un enigma che continua a infestare l’immaginario collettivo come un incubo ricorrente che fa da contrappasso alla serialità della sua spaventosa fonte. È stato il Netflix di quando non c’era Netflix: ogni settimana una puntata nuova sui giornali, un altro mostro arrestato, un altro dietro le sbarre, un altro ancora assolto. Chiunque in Italia, se ha più di 35 anni, ha avuto almeno una cena in cui qualcuno ha detto: “Vuoi sapere chi era davvero il Mostro di Firenze?”
Ogni nazione ha il suo male assoluto. Gli americani hanno Charles Manson, l’Inghilterra ha Jack lo Squartatore. L’Italia ha il Mostro di Firenze. Ma a differenza degli altri mostri, il nostro non ha un volto preciso, una biografia netta, una narrazione coesa. Ha decine di identità, centinaia di vittime collaterali, migliaia di pagine di verbali e nessuna verità definitiva. Il Mostro di Firenze è stato, più che un assassino, un personaggio mediatico: creato dall’opinione pubblica, alimentato dalla televisione e dai giornali, scolpito dalle psicosi collettive, dal sensazionalismo, dalla voglia disperata di cercare il male fuori di noi.
Il Maestro Sollima qui non sta girando una serie true crime, ma un vero e proprio anti-thriller. Anche se è passato alla storia al singolare, infatti, il Mostro di Firenze non è mai stato uno solo, ma un prisma malato in cui il nostro Paese, per la prima volta, si è guardato allo specchio e ha visto la propria mostruosità: cittadina, contadina, carnale, paranoica, voyeuristica. La regola di Sollima, enunciata sul set a nostro beneficio con sobrietà monastica, è non prendere posizione. Non costruire teorie, non sbattere nessuno in prima pagina, ma cesellare solo fatti, atti, voci. Per ciascun episodio un sospettato diverso. Come a dire che nessuno è colpevole, ma tutti lo sono.
Foto: Emanuela Scarpa/Netflix
È questa la grande intuizione narrativa: il Mostro non è un soggetto, ma un campo semantico. Una possibilità. Una distorsione morale che può annidarsi ovunque. Anche in questa parabola senza morale girata tra borghi ameni, paesaggi da Mulino Bianco a pochi passi (fatali) dalle profondità melmose insondabili del lago di Vico e che tanto somiglia alla viscosità del nostro inconscio collettivo. In effetti scrivere in sole quattro puntate del “Mostro di Firenze” è come provare a chiudere un cratere vulcanico con un enorme tappo di sughero: è chiaro che poi resta un lago di dubbi. Non è solo un cold case, è una nebbia: si infila ovunque, inquina tutto, e puzza ancora di una lunga lista di cose. Come molte altre cose che fanno male alla salute, puzza soprattutto di: repressione sessuale, colpe agresti, paranoie contadine, morbosità mediatica, maschilismo impunito, Stato deviante e famiglia cristiana.
La camporella era stata, a lungo, la più italiana delle vie di fuga dalla quotidianità sessuale. Un rituale erotico rurale, un compromesso tra desiderio e provincia, tra corpo e contesto. Altrove c’erano i motel, le camere d’hotel, l’anonimato urbano. In Italia – e soprattutto nell’Italia che ancora odorava di letame e di vespa 50 – c’era il campo. L’auto parcheggiata tra gli ulivi, i vetri appannati, la fretta, la paura, e insieme una sorta di liberazione che sapeva di terra umida e motore spento. La camporella è stato il luogo dove il sesso ha tentato di affrancarsi dal matrimonio, dal salotto, dal controllo familiare e religioso. Ma non ci è mai riuscito fino in fondo: troppo esposta, troppo colpevole, troppo scomoda per essere vera libertà. Era uno spazio di intimità inventato sul margine, nel buio, nei non-luoghi della mappa auto-tracciata dell’affettività italiana. Per questo, nella sua meccanica clandestina, la camporella è diventata anche una trappola, un simbolo del fallimento erotico della modernità: il luogo in cui l’amore si mostrava senza protezioni, e in cui, nel caso del Mostro, veniva punito con violenza rituale. Un altare da campo dove, avendo osato la libertà, si veniva sacrificati.
Così il maschio italiano si faceva adulto di notte, in mezzo alle sterpaglie, tra Fiat 850 e alitate di birra Moretti. E a volte, sempre lì, si è fatto cadavere. Uno dei temi più lancinanti della serie è questo: il cambiamento del corpo e del ruolo. La donna che cerca spazio, l’uomo che teme di perderlo. L’amore che diventa esposizione. La libertà che si paga con la vita.
Se l’amore vorrebbe restare fuori, il male, nel caso del Mostro, si ricaccia dentro. È dentro la coppia che si nasconde nei campi, come in un romanzo adolescenziale e pastorale, e viene macellata. È dentro la provincia italiana che reprime il desiderio e poi lo punisce. È dentro la giustizia che insegue fantasmi per decenni. È dentro la borghesia toscana che convive con l’orrore come con la muffa sulle pareti delle ville. È dentro il popolo che guarda, ascolta, giudica, e in fondo gode di quella pornografia del dolore che solo il delitto reiterato, rituale, riesce a offrire.
Il mostrologo ufficiale del set, Francesco Cappelletti, ci accoglie sul set insieme a scenografo, costumista, regista e macchinisti, altrettanto necessario e solerte. È un fiorentino che ha letto almeno 120 libri sull’argomento, e la sa lunga: «Alla fine mi ha convinto più Pacciani. Ma anche la pista del gastroenterologo umbro aveva un suo senso. Dipende da dove guardi. Da che punto del buio ti affacci».
Foto: Emanuela Scarpa/Netflix
Girare una serie così in Italia è una specie di iron man dell’etica di questo lavoro. Leonardo Fasoli e Stefano Sollima hanno cominciato con un anno di lavoro sugli atti, molti dei quali difficili da reperire, perfino per le famiglie delle vittime. Alcuni effetti personali delle coppie uccise nel 1985 non sono mai stati restituiti ai figli. Come se neanche la burocrazia sapesse più dove finisce la vita e dove comincia la fiction.
Ronciglione è perfetta per questo: sembra un plastico di Porta a Porta a grandezza naturale. Una città-fetale, da cui non si esce e in cui tutto si ripete. Le case sembrano già quinte teatrali, i bar mezzi vuoti prima, durante e dopo le riprese, il barocchetto vacuo delle facciate che nasconde un’inquietudine profonda.
Tutto è reale perfino quando è palesemente falso. I costumi (terribili nella loro precisione), le auto (identiche a quelle delle vittime), le stoffe, i pattern degli abiti, i colori delle divise d’epoca. Il costumista Mariano Tufano racconta un lavoro emotivamente devastante, ma necessario. E anche la scenografia di Paki Meduri, seppur ricostruita lontano dai luoghi reali, per rispetto, è un esercizio millimetrico di mimesi: niente è stilizzato, eppure tutto ha l’aria di qualcosa che sta per marcire.
Ma non è solo questione di carne: Il Mostro è anche una serie sul linguaggio. Su cosa possiamo dire, rappresentare, ricordare. Gli omicidi non vengono mostrati esplicitamente – non sarebbe possibile, non conoscendo la verità – ma le vittime sì, i loro abiti, i loro gesti, le ultime ore. La narrazione procede a scarti, a grandi flashback investigativi, con fili rossi tra le scene come sulle bacheche della polizia. Le quattro epoche si intrecciano, gli spazi si aprono: pavimenti in linoleum, esterni campestri, uffici, tribunali.
Un’architettura narrativa che è essa stessa un lungo incidente probatorio. La fotografia di Paolo Carnera accompagna tutto questo con una dolcezza inattesa: le luci calde, le lenti sporche, la grana materica dell’immagine sembrano proteggere la storia, anziché esibirla. No feticismo, sì compassione. Un pudore quasi religioso. Come se la macchina da presa, pur nel suo sguardo totale, si vergognasse un po’.
Il Mostro di Stefano Sollima è infine un discorso sulla memoria. «Avvicinarsi alla storia del Mostro di Firenze non è semplicemente un lavoro di ricerca, di scrittura, di messa in scena, è un confronto diretto con l’orrore», ha detto Stefano Sollima regalandoci le sue note di regia. «Raccontare con onestà, con rispetto, con rigore deve ancora avere un senso. Forse non per risolvere, non per capire, ma per ricordare. Un modo per restare accanto a chi è rimasto lì, per sempre nella notte, e dire: non siete stati dimenticati». La sua è una serie che non serve a trovare un colpevole, ma a restituire complessità. A ricordarci che esistono casi in cui la verità non è utile, e la giustizia non è neanche una possibilità, ma una categoria del pensiero magico. Non si può sapere tutto. Non si può capire tutto. Ma si può, ancora, raccontare. Raccontare i fallimenti, le paure, l’orrore che abbiamo chiamato amore. Le colline che sembravano salvezza e invece erano trappole. Il giornalista troppo informato che diventa sospetto. I testimoni che muoiono. I processi che deragliano. Le lettere anonime, le ritrattazioni, gli identikit, le foto mosse. Le piste sarde, i Vangeli apocrifi, la via esoterica, le barbe sospette, gli sguardi storti.
Foto: Emanuela Scarpa/Netflix
Il Mostro promette di essere davvero una delle migliori approssimazioni dell’universo cinematico della paranoia italiana. Un multiverso morale in cui ogni versione degli eventi è vera finché non ne esce un’altra più verosimile. Una saga nera senza supereroi, senza catarsi, senza fine. E il Mostro, come in ogni saga che si rispetti, è ancora lì, anche se oggi ha smesso di uccidere (e, probabilmente, di vivere). Ha solo cambiato forma.
Il Mostro è stato la nostra educazione sentimentale al Male, la nostra adolescenza tardiva di massa. Ci ha tolto il sonno, ci ha fatto diffidare della campagna, dei carabinieri, dei giornali. Ci ha insegnato che l’innocenza non esiste e che il sesso è sempre pericoloso. Oggi forse siamo più liberi, ma non meno mostruosi. Abbiamo semplicemente cambiato i riti. Non facciamo più l’amore in macchina, ma in streaming. Non leggiamo più i giornali di carta, ma i thread su Reddit. Ma continuiamo a guardare, a cercare, a voler sapere. Forse per paura, forse per desiderio. Forse perché il Mostro di Firenze è la più grande creatura mitologica che abbiamo prodotto dopo il Cerbero di Dante e ci somiglia anche di più.
