“L’ultimo colpo è stato per lei”, dice il sostituto procuratore Silvia Della Monica (interpretata da Liliana Bottone) sull’ennesima scena del crimine all’inizio del Mostro. “Questi sono omicidi contro le donne”.
“Perché?”, chiede la mamma di una delle vittime in lacrime.
“Vorrei poterle dare una risposta”.
Eccola, la scena madre di un’Italia che ha smesso da tempo di dormire sonni tranquilli, ma che ancora non ha trovato pace con i propri incubi. Con Il Mostro, presentata fuori concorso e Venezia 82 e dal 22 ottobre su Netflix, Stefano Sollima rimette in scena la tragedia (ricostruendola rigorosamente sulla base dei procedimenti e delle indagini ancora in corso) non tanto per risolverla, quanto per non dimenticarla.
Se ogni Paese ha il suo Zodiac, il nostro infatti si chiama Mostro di Firenze. Un nome che è diventato sinonimo di paura, di sospetto, di errori giudiziari e di un’Italia che negli anni ’70 e ’80 cercava di capire se il male fosse davvero un individuo. O una condizione collettiva.
Sollima, che nel suo cinema ha sempre raccontato le zone grigie del potere, dal crimine sistemico di Romanzo criminale e Gomorra alla brutalità impersonale di Sicario: Day of the Soldado, affronta qui la più clamorosa di tutte le cronache nere italiane. «In realtà il presupposto e la spinta erano esattamente l’opposto di un’investigazione», spiega. «Non era fare un’indagine, ma provare a rimettere un po’ d’ordine a una tragedia nazionale. È una storia complessa, delicatissima, che nel corso degli anni è stata raccontata con tesi e teorie completamente contrapposte, decine e decine, che secondo me hanno in qualche misura offuscato la realtà di quello che era successo. Noi abbiamo deciso di raccontarla come si farebbe ai bambini, dall’inizio. Ricominciamo da lì, dalla prima indagine, quella della pista sarda».
Non un true crime dunque, ma una sorta di anti-thriller, costruito come una serie di «episodi monografici su ciascuno dei sospetti. In questo modo abbiamo avuto la possibilità di raccontare la storia per com’è successa». Il risultato è un’opera cupa e analitica dove ogni puntata si avvicina a un possibile colpevole solo per scoprire che il vero mostro non è un volto ma un contesto: «Abbiamo cercato di riportare i fatti non sposando una tesi ma abbracciandole tutte», continua Sollima. «Volevamo raccontare non tanto l’indagine sul Mostro di Firenze, ma i possibili mostri. Ed esplorare il contesto sociale e culturale, che era mostruoso anch’esso».
Nella storia emerge un Paese rurale, patriarcale e chiuso, dove le coppiette si appartano nelle campagne e finiscono per diventare bersaglio di un odio sistemico verso la libertà femminile. «Si trattava di omicidi ai danni delle donne», afferma il co-sceneggiatore Leonardo Fasoli. «I fidanzati o i compagni erano solo un ostacolo che l’assassino si toglieva di mezzo. Ogni donna al di fuori dei canoni imposti veniva considerata meritevole di punizione. C’era una forte componente maschilista».
E allora la miniserie diventa un doppio specchio: quello di un’Italia che, mentre costruiva la modernità, custodiva ancora i suoi mostri nei campi, nelle caserme, nelle redazioni dei giornali. Lo dice chiaramente lo stesso Sollima: «Ti rendevi conto che la storia che andavi a raccontare era sì ambientata negli anni ’60-’70, dove c’era una società rurale e patriarcale, ma raccontava la violenza di genere. E non è così diversa dalla violenza di genere di cui leggiamo oggi sui giornali. Il femminicidio è, oggi come allora, un tema assolutamente centrale».
Il Mostro non cerca risposte, ma ne mostra l’assenza come parte del dolore collettivo. Per il consulente storico della serie Francesco Cappelletti, che da diciassette anni segue la vicenda, «non è facile distinguere i fatti reali dalle versioni romanzate di scrittori e giornalisti». Sollima e Fasoli lo hanno coinvolto «per controllare la cronologia e alcuni dettagli psicologici». E anche nella scelta degli attori, «siamo partiti dalla pista sarda», dice Sollima, «e ci sembrava rispettoso scritturare interpreti del territorio, anche per una questione linguistica».
La messa in scena è asciutta, precisa, senza compiacimento. «Abbiamo dovuto vedere fotografie che forse avremmo preferito non vedere», confessa il regista. «Non ci si può sottrarre dal raccontare l’orrore, ma bisogna trovare un equilibrio per non cadere nel sensazionalismo. Mostrare solo quello che è strettamente necessario, per rispetto verso le vittime. Fare un passo indietro rispetto all’orrore, però raccontandolo».
E infatti Il Mostro non si rifugia nel gore né nel thrillerismo televisivo: Sollima lavora più con la sottrazione che con l’eccesso, più con la memoria che con il colpo di scena. È un racconto fatto di silenzi, verbali d’epoca, interviste reali e ricostruzioni che sembrano tutte colpevoli. Un labirinto morale in cui ogni episodio chiude una porta e ne apre un’altra.
Alla fine, inevitabilmente (e no, ovviamente non è spoiler) arriva lui: Pietro Pacciani. Il contadino di Mercatale che per l’opinione pubblica incarnò il Mostro, il colpevole perfetto. «Pacciani era uno dei personaggi più iconici e mediaticizzati», ammette Sollima. «Lui è morto assolto. Ma la nostra serie si chiude così come modo per rassicurare lo spettatore: “Vedi, ti abbiamo raccontato una storia che non conoscevi”. Perché questa vicenda è molto più complessa di quanto si immagini. Io stesso pensavo di sapere tutto, poi ho iniziato a leggere e sono sprofondato in un orrore di mesi di lettura. È quello che dovrebbe fare anche il pubblico: informarsi, non lasciarsi influenzare da quello che “si dice”».
In questo senso Il Mostro non è solo un racconto di cronaca, ma un invito a guardare la verità, anche quando è deformata, e a capire quanto del mostro abiti ancora nei nostri pregiudizi. Sollima lo dice meglio di chiunque altro: «Avvicinarsi alla storia del Mostro di Firenze non è semplicemente un lavoro di ricerca. È un confronto diretto con l’orrore. L’orrore, per essere davvero raccontato, va attraversato. Non aggirato». E allora Il Mostro diventa un viaggio nell’Italia che ha perso l’innocenza e ha imparato a guardarsi allo specchio, scoprendo che il volto che temeva di più alla fine era il proprio.
Video-intervista a cura di Alessandro De Simone
