Hodie mihi, cras tibi. Il motto latino che ricorda l’avvicendarsi delle fortune umane è scritto a caratteri cubitali nel dormitorio dei concorrenti di Squid Game. Oggi a me, domani a te. Sono decimati, è l’inizio della fine. Di una competizione cominciata nella seconda stagione, ma anche della serie dei record made in Netflix creata e diretta da Hwang Dong-hyuk. Ormai sappiamo quello che ci aspetta, perché da questo lato dello schermo è averci partecipato tre (con questa) volte: dilemmi morali, addii e incontri in egual misura, mega strutture, incubi che non sospettavamo di avere legati a innocui giochi d’infanzia, rovinati per sempre (un due tre stella & compagnia bella).
Lo sappiamo tanto da averlo saputo troppo, durante la seconda stagione. Il che ha guastato le feste o perlomeno disatteso le aspettative (sempre grande problema, eh, le aspettative), almeno le mie (che sarà poi, direte voi…). Quindi onestamente io vi capirei, perché l’investimento emotivo in qualche modo va ripagato e dedicarsi ai sei episodi da circa un’ora di questo terzo capitolo senza sapere dove si sta andando, Thelma & Louise, be’, un po’ secca. Il cliffhanger alla fine della scorsa stagione era abbastanza forte da ripresentarsi al tavolo? E che ne so, mica me lo ricordo.
Quello di cui sono costretta a ricordarmi invece, mentre assisto impotente ai tentativi del protagonista Seong Gi-hun (Lee Jung-jae) di invertire l’ordine morale da taglione del suo ecosistema di gioco-prigionia – che nel suo piccolo vuole riprodurre quello del mondo intero, con qualche edulcorazione ma nemmeno così tante – è che mentre lo show mette su una piastra di Petri i comportamenti degli esseri umani, esplodendoli come fossero osservati al microscopio (leggasi: estremizzandoli naturalmente, rendendoli in qualche misura macchiettistici), in parti del mondo nemmeno troppo lontane quegli stessi pattern trovano compimento.
Anche di questo avevamo già contezza? Certamente. Eppure quelle immagini della Situation Room nella Casa Bianca poco prima delle bombe statunitensi sull’Iran, e tutti quei discorsi da signori della guerra dei VIP che, spanciollati in poltrone extra-comode, scommettono tra un cocktail e l’altro sul fato dei concorrenti, nei “tempi interessanti” in cui viviamo assumono un’altra ombra, molto forte, incredibilmente vicina.
Ci ritroviamo a sentirci davvero come Gi-hun, che dopo la seconda stagione e la rivolta fallita in chiusura di stagione non sa bene dove guardare, capitato tra capo e collo in qualcosa che, ora comincia a crederlo davvero, sia troppo, troppo più grande di lui. Qual è la nostra possibilità d’azione in mezzo a correnti che ci remano contro e non cessano? Gli uomini giusti sono destinati a vivere come pecore? Perché gli esseri umani sono malvagi? Come faccio a scegliere di alzarmi da letto ogni mattina e mettermi in moto, se i meccanismi sottesi al mondo sono crudeli, egoistici, schifosi?
Se la seconda stagione appariva più trita, sotto questo aspetto, la regola della ripresa del terzo capitolo regge anche nel caso di Squid Game, e qualche motivazione per farsi riacchiappare dal ragionamento si trova. Ad avere le risposte illuminate alle domande di sopra potrà anche solo essere Yogi Barra (per citare uno dei VIP che assistono ai giochi), o un advert online sponsorizzato da “le frasi di Osho”. Per svolgere meglio il dilemma etico-morale, intanto, la serie si gioca ancora la carta dell’oratoria, e mette in campo (anzi, in agorà) scambi di battute che paiono usciti dalle (prime, tentative) opere di un qualche filosofo della Grecia antica. Incidentalmente, tutto questo parlare funge da commento a quanto appena avvenuto, che si tratti di numeri e soldi o delle dinamiche di gioco, giusto per assicurarsi che tutti abbiano capito tre volte quello che c’era da capire.
Ne avevamo bisogno? Le persone sono davvero-davvero schifose come le dipinge la sceneggiatura di Hwang, o è sempre perché le cose, per funzionare sullo schermo, hanno bisogno di una statura larger than life, nel bene e nel male? Qui si arenano perfino Yogi Barra e il calendario di Frate Indovino. Alla seconda domanda, se avete una risposta ragionata, scrivetemi in DM, perché non è facile rispondere lucidamente in mezzo, insomma, a tutto.
Con la prima forse forse viene meglio. Perché c’è un momento, al picco dell’eccitazione, in cui vorremmo prolungare ogni endorfina. Ogni piacere trattenerlo, farlo un po’ nostro, una costante dell’anima. Unico spoiler che posso farvi: romantico, ma non funziona. Quindi certo, alla conclusione della prima stagione di Squid Game il prurito arrivava: durasse di più! Ma forse, più che guardare al passato con nostalgia, sarebbe bello metterlo in un carillon (prova per i concorrenti? chissà) e fargli fare un giro quando il cuore chiama. Per il resto, concentrarsi sul futuro, cioè poi sul presente, aprire nuove vie, anche quando la meta dovesse essere la medesima.
Al netto di questo disfattismo, avercene di prodotti così, dato che già incavolarsi un po’ è meglio che l’indifferenza, e che anche nell’incavolatura, volenti o nolenti, una lezione ce la si porta a casa. Vale per Gi-hun, ché magari è la volta buona che capisce che non si vive di solo Super-Io. Magari è la volta buona per i giocatori del futuro, i quali potrebbero non esistere, se davvero il nostro protagonista e le sue istanze risultassero vincitori. Leggo ora un pezzo di Jerry Goldberg sull’Atlantic, questa volta sulle vere Situation Room, le bombe vere, le morti vere. «Il mondo si è imprigionato in una roulette nucleare. L’unico modo per vincere la partita è abbandonare il gioco». I Quit, come poi l’album appena uscito delle Haim.
Ecco: dopo il quiet quitting della disillusione lavorativa; dopo il “quittare” del linguaggio dei videogiochi, un arrendersi con la coda tra le gambe; ora “lasciare il tavolo” potrebbe assumere lo spirito di una rivalsa, di una distanza alla “fuck you guys, I’m going home“. Potrebbe, dato che: se c’è un gioco è perché è più furbo di te, e la prima regola del Truman Show è che il Truman Show è visibile solo dall’esterno. Eppure non è calato dall’alto, non è un Primo Mobile aristotelico, non è un’ineluttabilità. Ritirarsi dal gioco è la sfida più forte, oggi, allo status quo. È dimostrare che si è “fatto il lavoro”, che siamo liberi, o almeno un po’ di più, più consapevoli. Di questo sì, di questo avremmo bisogno.
Tutto questo lo può agire una serie tv? Macché. Oggi a te, domani a me. Perciò a che serve disperarsi: la morale di tutta la storia è già contenuta lì. In quell’avvicendarsi che ricorda l’unica cosa da tenere a mente per levarsi davvero dalla questione, mettersi comodi in un angolo e stare a guardare. Il nostro nemico potrebbe non passare mai davanti a noi, morto, scorrendo sul proverbiale fiume verso la foce. Però potremmo comprendere meglio questa cosa del “guardarci dentro”. E che vittoria sarebbe, quanti problemi di meno.
Dobbiamo passare da una serie tv gloriosamente cinica e cruenta per riuscirci? Massì, va bene. Come insegna proprio Squid Game, ogni strategia vale. Basta che, come un Machiavelli, si ottenga il risultato.