Nel 1977, in un angolo polveroso di Secondigliano dove i padri latitano e le madri cucinano interminabili ragù, l’aria è ispessita dai sogni e dal tabacco (entrambi di contrabbando). Un ragazzino inizia a diventare qualcuno. Si chiama Savastano, ma ancora non è don Pietro. È figlio di nessuno, fratello di chi capita, amante in erba, e protagonista di una stagione dell’esistenza in cui tutto è così relativo che la camorra sembra avvicinarlo con la naturalezza con cui Lila incontra Lenù nei libri firmati da Elena Ferrante.
Se L’amica geniale raccontava l’educazione sentimentale e intellettuale di due ragazze nella Napoli degli anni Cinquanta, Gomorra – Le origini ne propone quasi un’oscura controparte maschile, vent’anni dopo: una formazione criminale dove la maestra di vita è una nemica cretina. La camorra è presente fin dall’infanzia, non come scelta ma come compagna di banco. È affascinante, carismatica, imprevedibile. Ti conosce meglio di quanto tu conosca te stesso e ti spinge a diventare qualcosa che non eri – proprio come Lila con Lenù. Solo che qui non c’è scuola che salvi o vocabolario che redima. I protagonisti non leggono libri: contrabbandano sigarette. Non ambiscono a scrivere, ma a sopravvivere. E quando uno di loro riesce a sollevarsi, è solo per vedere meglio quanto è profonda la fossa. Se Ferrante racconta una Napoli che prova a emanciparsi, Le origini ne mostra un’altra che si compromette per sempre.
Gomorra – Le origini, serie Sky Original prodotta da Sky Studios e Cattleya, comincia da qui: da un ragazzo che si arrabatta tra i vicoli, che sogna un benessere che ha visto solo nei film americani (dove si beve bene e si muore meglio) e che finisce per inciampare, con l’incoscienza dei sedicenni, dentro la storia criminale della sua città. C’è l’amore, perfino la dolcezza; c’è l’ambizione, ma anche le risate; certamente c’è la perdita dell’innocenza. Perché c’è infine Angelo, detto ’A Sirena, che regge Secondigliano con una mano elegante e l’altra sporca di sangue, ad aprire a Pietro – sbarrandogli tutto il resto – le porte dell’unico mondo davvero possibile: quello dove si diventa qualcuno a forza di scelte sbagliate fatte benissimo.

Luca Lubrano nei panni del giovane Pietro Savastano. Foto: Sky
Da lì in poi le sei puntate saranno Gomorra prima della marcia funebre: con la radiolina ancora accesa, i colori pure, e un motorino rosso che corre verso il destino con la leggerezza di chi non sa dove sta andando, ma accelera lo stesso. Per questo Le origini è un’indagine su che cosa significhi essere giovani in un romanzo che ti ha già spoilerato il finale prima che tu abbia potuto imparare a leggere.
A volerla incasellare dentro un altro immaginario condiviso, questo prequel è il Better Call Saul di Secondigliano: stessa operazione di scavo nel mito, stesso coraggio di rinunciare al confortevole imborghesimento creativo di molte IP di successo, stessa permuta dell’alto voltaggio narrativo per il tempo lento e contraddittorio che precede la tragedia. Nils Hartmann, vicepresidente esecutivo di Sky Studios per l’Italia, ci confessa: «Mai e poi mai avremmo fatto su un marchio così importante per Sky una mera operazione di marketing. Se non ci fosse stata l’idea giusta, non saremmo andati avanti». Si gioca a dimenticare ciò che sappiamo di Gomorra per andare a cercare non l’inizio della fine, ma la fine dell’inizio: lì dove tutto sembra ancora reversibile, dove la camorra non è ancora imprescindibile sovrastruttura culturale, e dove Pietro ha sedici anni e guida un Ciao che non fa paura a nessuno.
L’apice metanarrativo della nostra visita sul set, a due settimane dalla fine delle riprese della serie (che uscirà a gennaio 2026 in esclusiva su Sky e in streaming solo su NOW), è stato il piccolo rinfresco servitoci direttamente dal bancone fittizio del Bar America, uno dei centri nevralgici della storia raccontata. Non una tenda anonima, non un filare di tavole da sagra, ma un vero-finto bar ricostruito con cura ossessiva, trasformato per l’occasione in punto ristoro per giornalisti dalla penna facile e lo stomaco debole. Bere un caffè napoletano su un ripiano dove, poco prima, un losco personaggio discuteva di sigarette e territorio ha avuto dei risvolti performativi quasi brechtiani. Ed è stato già lì, nel punto esatto in cui l’illusione incontra la logistica, che Gomorra – Le origini ci ha rivelato la sua natura più intima: non un semplice prequel, ma una reinvenzione radicale, un salto indietro per prendere la rincorsa verso la dolceamara illusione di poter essere tutt’altro. Accanto all’insegna del bar, quella di un’agenzia di pompe funebri. Bar e bare, significativamente accanto. Ogni oggetto di scena puzza di realtà da lontano un miglio.
Come tutti i figlioli prodighi che si rispettino questo congegno narrativo sembra voler fuggire dalla saga madre; eppure, suo malgrado, ne condivide i geni: gli amici del giovane Pietro – che si ritrovano nel cortile di Casa Caputo, una specie di cohousing ante litteram in stile How I Met Your Boss – hanno un bel travestirsi da divi da quattro soldi, cambiarsi la voce, corteggiare le ragazze di buona famiglia. Per loro il sogno americano è una barzelletta sporca lost in translation: non la capiscono del tutto ma ridono lo stesso. Proprio in quell’oscillare continuo tra innocenza e ambizione, tra mito cinematografico e realtà del vicolo, ogni gesto – per quanto minimo, esitante, imperfetto – suona già come l’inizio di una caduta annunciata. Ogni sigaretta venduta, ogni battesimo in cui ci si imbuca con le giacche troppo grandi, ogni volta che si finge di essere qualcun altro per sopravvivere: tutto questo è già Gomorra, in potenza. Tutto porta lì, a ciò che sappiamo e temiamo, come se la libertà fosse solo l’illusione di poter rimandare l’inevitabile.

Imma e Pietro, interpretati da Tullia Venezia e Luca Lubrano. Foto: Sky
Ma se Gomorra era severa e lucida con la materia criminale – almeno quanto un chirurgo toracico che, a tavola, ci racconta un intervento di sternotomia, Le origini, invece, gioca con la nostalgia perversa per un crimine ancora a misura d’uomo, l’adolescenza, la delicatezza, la goffaggine. «Nella serie madre non c’è una risata che sia una. Qui si ride e si piange», ci ha detto il produttore Riccardo Tozzi, stagliandosi davanti a uno sfondo di specchiere da “Case Pacchiane” (il profilo Instagram) e pale d’altare posticce.
A proseguire nella presentazione della serie c’è un regista che se l’è cucita addosso: Marco D’Amore. Dopo aver attraversato l’inferno nei panni di Ciro Di Marzio, qui prende il volante di un paradiso perduto (per i primi quattro episodi: gli ultimi due sono diretti da Francesco Ghiaccio) e firma anche un bel pezzo della sceneggiatura, scritta insieme a Leonardo Fasoli e Maddalena Ravagli, che a loro volta hanno ideato la serie con Roberto Saviano. Squadra che vince, stavolta, ha cambiato sport.
D’Amore lo dice senza giri di parole: «Nessuno può immaginare cosa sarà Gomorra – Le origini, soprattutto se ha visto Gomorra – La serie». Arrivederci fotografia plumbea, corridoi bui, tigri d’appartamento. Bentrovate incertezze, carezze, commozioni mai cerebrali. Evviva il sentimento, parola che nella serie madre era passibile di condanna più ancora della rapina a mano armata. È una camorra più tenera, più povera, più umana. E, quindi, più tragica. «Abbiamo attraversato il fiume», ha detto. Ma non è stato un guado epico; semmai, un valico esitante, umido, necessario.

Marco D’Amore sul set di ‘Gomorra – Le origini’. Foto: Sky
Napoli torna una città in divenire: tra il centro storico e l’utopia che sarà disattesa dalle Vele, che nessun vento di cambiamento mai gonfierà. Tra l’adattamento dell’American Dream e l’inizio di un incubo locale, in quell’interregno sottile tra la miseria e il disincanto, tra la sopravvivenza e la prima borghesia criminale. Le location scelte per le riprese – San Giovanni a Teduccio, Barra, Ponticelli – restituiscono un paesaggio urbano di vialoni d’asfalto spaccato tra file di case basse, con le facciate piene di crepe e di vita, che non hanno bisogno di trucco per essere il set naturale di questo C’era una volta a Secondigliano. Per Sergio Leone il passato era una forma di futuro: qui diventa versione beta di una Gomorra sconosciuta a quella plastificata, globalizzata, memabile; la Gomorra bambina di un welfare deviato, di mutande stese allegramente insieme, di botteghe slabbrate e traffico di sigarette come forma alternativa di economia domestica.
La costumista Olivia Bellini ha fatto un lavoro filologico: niente nero, niente oversize, vestiti aderenti e colori saturi per raccontare un’epoca in cui anche il crimine aveva un’estetica pop. Le comparse hanno dovuto smettere di spinzettarsi le sopracciglia. I cappelli sono stati infeltriti apposta. Le mute da sub sono state rifatte su modelli d’archivio. I cappotti pesano una tonnellata. Anche il trash è stato curato come una reliquia: il guardaroba di don Pietro giovane è composto da pezzi spaiati di giacche da nonno e pantaloni da zio: un’iconografia che suggerisce un’identità ancora in costruzione. Come ha detto D’Amore: «Questi ragazzi sognano ’a femmina, ’a pelliccia, le scarpe; come sta vistut’ chill’, come tiene i capill’. È questo che cambia». Non è ancora il potere a definirli, ma il desiderio di un futuro, anche se non sanno quale.
Il set, visto da vicino, è una macchina perfetta. Più di cinquemila comparse, 300 mezzi di scena (alcuni privati, rastrellati da collezionisti o nostalgici), falegnamerie interne. A un certo punto della visita ci muoviamo da una location all’altra su un bus d’epoca in cui ogni vite è originale e ogni scricchiolio autentico. Quando raggiungiamo il tendone con i monitor che ci mostreranno i ciak della scena in cui Pietro presenta la giovane Imma agli amici c’è ovunque una puzza di letame tale da rendere una performance nella performance l’atto di assaggiare la cheesecake che ci viene gentilmente offerta. I suoni e le voci che ci giungono dagli auricolari, tra i take, sono il flusso di coscienza collettivo di questo set: meglio di qualunque tecnologia immersiva. “Scroccami nu cafè” – “Sei bellissimo” – “Smack” – “È acqua chista?” – “’O dolce è buono, ma sape ’e stalla” – “Agg’ miso ’stu giubbino e mo pare ca me portano a fa’ l’identikit”. Ci sono attori enfant prodige che aspettano il loro momento facendo freestyle in dialetto (deliziosamente riportatoci in cuffia) e se ne escono con barre che neanche il Wu-Tang Clan sotto effetto di genziana (su tutti eccelle il geniale Antonio Incalza, nel ruolo di Fucariello; D’Amore insiste: «Ne sentirete parlare»). Alcune comparse sembrano uscite da un film sovietico. Altre da un videoclip di Liberato girato da Abel Ferrara.

Fabiola Balestriere interpreta una giovanissima Annalisa Magliocca, la futura Scianel. Foto: Sky
Il cast è una rivelazione. Quasi tutti esordienti, volti antichi e nuovi insieme, scelti da Davide Zurolo con la precisione di un archeologo dell’anima. Alcuni sembrano eterni. Altri appena nati. Tutti sembrano reali. I loro dialoghi non suonano come sentenze, le relazioni tra di essi non sono ancora strategiche: il mondo si mostra nella sua ambiguità senza il bisogno di spiegarla.
Luca Lubrano, 16 anni, di Forcella, famiglia di macellai da generazioni, interpreta Pietro. Secondo D’Amore è il miglior attore italiano della sua generazione. «Mi ricorda me», dice, «nell’esuberanza, nell’ossessione, nella solitudine». C’è anche Washington, un ragazzo afrodiscendente che parla napoletano meglio di chiunque sul set. Non è una scelta di casting colour blind: è un fatto storico. «’O Niru è esistito davvero, figlio di un soldato americano della Liberazione. In quegli anni non si facevano distinzioni e l’inclusione era un fatto, non uno slogan. Napoli, allora, era più avanti di gran parte dell’Italia di adesso».
Gomorra – Le origini è più che l’inizio di una storia, è l’ultima occasione per credere che quella storia potesse andare diversamente. È il momento in cui i personaggi ancora non sanno chi diventeranno. È la fotografia sbiadita di una possibilità che nessuno ha avuto il coraggio di scegliere. Napoli non è più un teatro di guerra, ma un ventre che partorisce sogni e li soffoca con la stessa cura materna. Un luogo che ti ama come solo le madri violente sanno fare: con troppe parole e troppe promesse.
Il progetto della serie dimostra così che forse la vera mutazione genetica della camorra non è stata il passaggio dalla sigaretta alla pistola, ma quello dalla povertà al risentimento. E che tra l’illusione onirica e il realismo criminale, i nostri protagonisti vivono un racconto che non assolve e non condanna, ma osserva: come certe altre madri, meno violente, ai bordi del marciapiede, non dicono niente, e capiscono tutto.
Il Ciao rosso di Pietro ragazzo è un simbolo perfetto. È un’estensione del suo corpo, una bandiera della mobilità immaginaria. Non va veloce, ma arriva. Non fa rumore, ma si sente. Non ha tanta potenza, ma ha un certo stile. Ha ruote piccole ma consuma poco e può andare lontano. Ed è su quel Ciao che Pietro si gioca tutto: la libertà, l’inganno, una città che non sa cosa fare di lui e, allora, lo consegna al destino con una carezza troppo forte.
E l’unico rombo che sentiamo, lasciando il set, prima che cominci il lungo silenzio che ci accompagnerà fino a gennaio, è quello di quel Ciao che se ne va piano, troppo piano, con i suoi 1,41 cavalli a 4.500 giri, per scappare davvero a tutto quello che lo aspetta.