Gomorra 4: il ritorno del cavaliere nero | Rolling Stone Italia
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Gomorra 4: il ritorno del cavaliere nero

Si è chiusa la quarta stagione, forse la più complessa e meno amata. E la quinta? Sarà un one man show con Salvatore Esposito nei panni del cavaliere nero della barzelletta di Proietti?

Gomorra 4: il ritorno del cavaliere nero

Foto di Gianni Fiorito

L’avevamo previsto, la quarta stagione di Gomorra avrebbe fatto storcere la bocca a molti appassionati. Troppo distante dalla grammatica cinematografica, antropologica, narrativa passata, troppo complessa per quella sorta di mondo crime-fantasy che fino a quel momento divideva Napoli in tanti sottoregni alla Game of Thrones, tra guerre, relazioni pericolose, tradimenti, alleanze e famiglie sempre pronte a essere squassate da qualche tragedia shakespeariana.

Ecco perché il finale di stagione ha riconciliato i nuovi gomorristi con i vecchi: perché se i primi hanno trovato nel terzo livello del Genny imborghesito un elemento di interesse e approfondimento maggiore – e, va detto, di ancora più profonda ambiguità morale -, i secondi nel redde rationem del boss hanno ritrovato l’antica identità di un racconto che li aveva conquistati tra morti violentissime e frasi iconiche (“manda un’ambasciata ai tuoi fratelli, Gennaro Savastano è tornato”).

E non è un caso che sia Patrizia la chiave del finale, in una scena a specchio con l’ultima puntata della terza stagione. Come se la battaglia interna di Genny fosse anche quella degli sceneggiatori e dei registi, ansiosi di riprendere la circolarità di una narrazione epica e più rassicurante ma senza rinunciare a guardare oltre e altrove.

Le reazioni, soprattutto sui social, alle ultime tre puntate e in particolare alle due mandate in onda venerdì sera ci mostrano un pubblico che ritrova i suoi mostri, le sue storie, spettatori rimasti spiazzati dal sangue versato in modica quantità, da strategie economiche e politiche più complesse, da una stagione di leader deboli, che ritrovano i loro antieroi.

Sì, perché se c’è una sfida che ha vinto Gomorra 4 è quella di una rappresentazione altra e alta del gangster movie, capace di mostrare i colletti bianchi oltre le pistole, di fare i conti, finalmente e davvero, anche con la controparte – una giustizia rappresentata da Walter Ruggieri, più alter ego che rivale di Genny e ottimamente interpretato da Gennaro Maresca – senza dimenticarsi di sé. Tra Coppola e Shakespeare, tra il confronto ossessivo con il ruolo di padre – tutti qui agiscono per il futuro, per un figlio o una figlia, ma sono strozzati dal passato – e donne alla Lady Macbeth (Ivana Lotito, clamorosamente brava), finiremo e finiranno per rivalutare questa stagione molto presto.

Anche perché non era facile rinnovare la serie, ricostruire un pantheon criminale laddove troppe morti (e qualche resurrezione di troppo) avevano in parte svuotato il campo dal carisma. E la scelta geniale è stata portare avanti questo ricambio generazionale con 12 puntate in cui al centro non ci sono l’infallibilità, l’implacabilità, l’ascesa incontrastata o l’ossessione per la vendetta, ma l’errore.

Gomorra 4 è la stagione di leader deboli e vulnerabili – per amore familiare, filiale, passionale, amicale – di Sangue Blu che non sa tenere insieme i suoi e non sa più capirli, fino a perdere chi amava di più, quasi a scontare il peccato originale di aver separato i due fratelli della serie, di Patrizia che torna piano piano la riluttante novizia gettata all’inferno da zio Malammore proprio quando sale al trono, di Genny che per inseguire un sogno farà sbagli, soprattutto nello scegliere gli alleati e le persone di fiducia, finendo per essere costretto a obbedire ad Azzurra per tornare in carreggiata. Se la circolarità visiva e narrativa sono evidenti – l’ultima scena ci mostra di nuovo un Genny in fuga, fisicamente sepolto, leone in gabbia, fino all’annuncio, alla Marvel, del prequel L’immortale -, l’evoluzione dell’universo Gomorra è evidente. Arriva il realismo, l’eroismo è nero e cupo perché, come si dicono Genny e Patrizia al momento dell’addio, “Chest’é”.

Come raramente prima d’ora, c’è voglia di capire chi e come si prenderà la scena nella prossima tornata di episodi. Arturo Muselli, che potrebbe essere il nuovo Marco D’Amore? Sarà un one man show di Salvatore Esposito, ormai attore consapevole, maturo e capace di divorarsi la scena – le due scene finali con i Levante sono pazzesche – nella versione alla Proietti del cavaliere nero? Azzurra prenderà il posto di Patrizia (Cristiana Dell’Anna, mancherà), riuscendo a far fare al ruolo principale femminile un ulteriore balzo in avanti, come dimostra quel feroce, tranquillo, lapidario “adda murì”? E Maresca sarà il primo eroe positivo, proprio perché emotivamente fin troppo simile ai suoi nemici, della serie?

Raramente un prodotto italiano lascia tante domande, attese, prospettive. E quasi mai lo fa se rischia come fatto da Gomorra, sia registicamente che a livello di contenuti. Prima si raccontava una guerra di un passato prossimo, ora il presente. Forse persino il futuro. E l’unica certezza che abbiamo è che il nostro GoT (Gomorra of Thrones) finirà con qualcuno che mangerà il cuore del proprio nemico. Con una battaglia che renderà la quinta stagione un terremoto (tele)visivo.

Gomorra, con la stagione più complessa e forse meno amata, ha dimostrato di aver fatto fare un salto decisivo alla serialità italiana. Ha costruito un immaginario solido – si vede nell’eccellente regia di Claudio Cupellini nel finale, in cui raccoglie e valorizza il lavoro dei colleghi – che non è più ostaggio dei singoli, ha i suoi vendicatori, la sua mappa antropologica e storica, tanto da poter isolare uno dei suoi per mandarlo al cinema, a Natale. Ha saputo fare i conti con una pesantissima questione morale non rinunciando alla sua natura ma dicendoci che puoi essere un imperatore, ma se il tuo regno è quello di Genny, la tua unica prospettiva è l’inferno, un loculo con una TV ultra HD e soprattutto l’impossibilità di rendimerti, di tenere le tue mani pulite. Anche perché la bestia non puoi domarla.

Ha dimostrato di poter risorgere come i suoi personaggi principali e di poter fare a meno, per la prima volta, di Stefano Sollima (la terza stagione ne era evidentemente orfana, invece qui Francesca Comencini prende le redini e si sente un po’ l’eredità del suo film, bello e sottovalutato, A casa nostra). Ora le manca solo di decidere come e quando finire. Perché l’orizzonte di una conclusione, anche non a breve, è fondamentale per non perdere questo patrimonio creativo, per non farlo disperdere nell’ostinazione dell’eternità. Anche gli immortali muoiono, ce l’ha insegnato proprio Ciro.