Ryan Murphy l’ha fatta proprio grossa, questa volta. Dopo aver rovinato il finale di American Horror Story: Coven, per cui non riceverà mai il mio perdono, e aver piegato la realtà un po’ come voleva per raccontare le storie di Jeffrey Dahmer e dei fratelli Menendez nei primi due capitoli della serie che insieme a Ian Brennan ha dedicato ai serial killer americani, Monster, la prova più grande di tutte l’ha visto incasinarsi nel più regale dei modi possibili. Perché, per il terzo capitolo (sempre su Netflix), era il turno di Ed Gein: Macellaio di Plainfield, Wisconsin, e primo in una scomoda genealogia di killer seriali che, a un certo punto, sembravano davvero impegnati in una competizione. Quella di dimostrarsi il più fedeli possibili al “Vangelo di Ed Gein”.
Perciò Murphy che fa? Tira fuori l’artiglieria pesante. Non tanto nel cast, dove sceglie un molto bravo e molto appropriato Charlie Hunnam (andate a spulciarvi qualche foto di Gein per capire cosa intendo), Laurie Metcalf, Suzanna Son, Addison Rae, Tom Hollander e Lesley Manville; andandoci piano con le stelle brillantissime, in poche parole. No, il colpo grosso arriva nella costruzione stessa dell’argomentazione della serie. Che ci vuol dire: guardate che, senza Ed Gein, manco noi saremmo qui a raccontarci queste storie dell’orrore. E che, per dimostrarlo, imbocca un detour lunghissimo. Smanacciando e adulterando in giro. Questa volta, dato il tema, sta proprio bene dire: e quanti ne ha fatti rivoltare, in quelle tombe.
Edward Gein: ginofilo, squartatore, profanatore di tombe, omicida. Figlio di Augusta, madre repressiva e ultracattolica di stirpe tedesca che professava orgogliosamente di aver fornicato solo due volte, e con disgusto, nella vita: quelle che avrebbero portato alla nascita di Harry, primogenito, e Edward, secondogenito. Cacciò presto il padre di casa, fece chiaramente capire a Ed che avrebbe preferito una figlia, parzialmente lo trattò come tale. Gli inculcò che l’amore deriva solo da una madre, che le donne sono creature immonde e che il sesso condanna all’inferno. Ed credette a tutto e sviluppò una schizofrenia che lo portava a comunicare fittiziamente con la madre anche dopo la morte di questa. E che lo portava a immaginarsi, probabilmente, situazioni che non esistevano.

Laurie Metcalf è Augusta, la madre di Ed Gein. Foto: Netflix
Ma queste cose le apprendiamo leggendo il resoconto della vera storia di Ed Gein, ascoltando la puntata che l’ottimo podcast di Wondery RedHanded dedica allo “Psycho d’America”, o mettendo a paragone con attenzione i fatti e la finzione in Monster – La storia di Ed Gein. Non guardando gli otto episodi che compongono quest’ultima, perché al massimo potrebbero gettarci in una grande confusione.
La serie presenta Gein nel mezzo del cammin della sua vita, ovvero nell’attimo prima che le numerose e piuttosto pasticciate devianze comincino a manifestarsi, condannandolo alla Storia. La vita di questo timido ragazzone del Midwest viene scossa dalla perdita della madre, dall’affiorare prepotente degli istinti sessuali e dalla presa di consapevolezza sempre più marcata di una diversità che ha il sapore di una faglia, qualcosa che non si colma. È così: le perizie mediche successive all’arresto di Gein lo dichiararono incapace di sostenere un processo, relegandolo all’infermità mentale e alla casa di cura, struttura in cui terminerà i propri giorni. Siamo negli anni Cinquanta, la salute mentale non era esattamente una cosa presa sul serio. Aggiungiamoci la circolazione, durante gli ultimi anni della Seconda guerra mondiale, di fumetti, zine e fotografie relative ai campi di concentramento della Germania nazista, e l’impressionabile Ed Gein si fece ghoul, diavolo, mostro.
Particolare spazio, in questo senso, è dato da Murphy e Brennan (nei crediti di scrittura di tutti e otto gli episodi) alla figura di Ilse Koch, “The Bitch of Buchenwald”, moglie di Karl-Otto Koch, comandante responsabile del campo di concentramento di Buchenwald, accusata di aver torturato atrocemente i prigionieri dei campi e di aver trasformati i loro resti in sapone (quasi un classico, viene da dire) o, dopo averli scuoiati, di averli resi ciò che di fatto già li considerava essere: degli oggetti (una lampada, per la precisione). In Monster, il ruolo di Koch è interpretato da Vicky Krieps, valchiria satanica protagonista di sequenze rubate al Portiere di notte, mentre le fotografie della Koch storica rendono più immediato il paragone con un’altra torturatrice dell’universo murphyiano: Madame Delphine LaLaurie aka Kathy Bates nella citata American Horror Story: Coven. A ogni modo, sarebbe stato il palmarès criminoso di Koch, nella versione Monster, ad aver definitivamente “ispirato” Gein. Sì, no, forse?

Vicky Krieps nei panni di Ilse Koch. Foto: Netflix
Non è l’unica infiltrazione di mondo reale nella fictionalizzazione della vita di Gein. Rispetto ai primi due capitoli, questo Mostro fa un salto in avanti, e crea una costellazione strettissima con altri personaggi reali e di finzione. Ed Gein ha cambiato la nostra vita, ha cambiato le nostre storie, ha cambiato le nostre paure e il tipo di superlativi che ci siamo trovati ad affrontare. Non ci credete? Guardate qui, come Alfred Hitchcock (Tom Hollander) si fa ispirare al limite del parossismo dalla vicenda di Gein per modellare il personaggio di Norman Bates nel suo Psycho.
Ma qui si va oltre: Anthony Perkins sarebbe stato l’interprete perfetto di quel personaggio deviato perché lui stesso, cioè Perkins, come Gein avrebbe avuto un segreto. Si apre così un capitolo tangente sull’omosessualità presunta, fattuale o latente di Perkins, e sulla sua decisione di sottoporsi a terapia di conversione (tutto ciò è Wikipedia-approved). E da lì, di ritorno, rieccoci a interrogarci sulla sessualità di Gein e sulla sua passione per gli indumenti femminili (lingerie soprattutto), ed ecco che pure lui, nella serie, si interroga se non sia magari transessuale, ed entra in contatto con Christine Jorgensen, tra le prime donne transgender a fare scalpore, ma solo per vedere negata poco dopo quella versione di realtà e scoprire che era Gein stesso a interpretare la voce di Jorgensen nelle loro conversazioni…

Tom Hollander è Alfred Hitchcock. Foto: Netflix
Insomma, il punto è che non se ne viene a capo. Che la verità è una questione di rifrazione (il personaggio di Leatherface in Non aprite quella porta ha tratti in comune con Ed Gein, ma se l’ispirazione fosse stata molto più diretta di così? E via un’altra storyline alternativa alla realtà…), ma soprattutto che, a quanto pare, Ryan Murphy avrebbe voluto che Mindhunter avesse la sua terza stagione e il suo gran finale; dato che si adopera così tanto, negli ultimi due episodi, a mettere in fila legami cogenti tra altri grandi serial killer americani e la storia di Gein, e che pure il setting pare proprio quello della compianta serie investigativa sulle indagini che portarono al conio proprio del termine serial killer… E poi questa Adeline Watkins (Suzanna Son), presentata come la weirdo amica di Gein, nella realtà non avrebbe avuto legami sostanziali con il Macellaio…
Tra il 1947 e il 1952, Edward Gein riesumò i corpi di nove donne, profanandoli. Li mutilò, li scuoiò. Ne conservò alcune parti nella sua abitazione e ne ricavò alcuni oggetti (un tamburo, i sedili di quattro sedie, un cestino dei rifiuti), soprattutto dal cranio e dalla pelle. Nel 1954 e nel 1957 uccide due donne, Mary Hogan e Bernice Worden. Quelle che abbiamo sono nove vulve conservate in una scatola da scarpe, quattro nasi in un’altra. Altri vari resti chiusi in un barattolo di fiocchi d’avena. Ossa, seni, vagine, labbra, teste. Scelse nove cadaveri per prelevare la pelle del volto e dello scalpo, oltre ai capelli. Li usò per realizzare maschere e una sorta di “tuta” indossabile, fabbricata cucendo insieme la pelle delle gambe e del busto di una donna. Si mise davvero addosso, questo è quello che sappiamo, le maschere e la tuta (Buffalo Bill nel Silenzio degli innocenti? Esatto, ci avete beccato).

Charlie Hunnam/Ed Gein nella serie. Foto: Netflix
Altro non c’è e non si può avere. Il resto è la voglia, e il gusto, e il perverso, e il piacere, e il proibito di continuare a tessere questa storia senza trama né ordito, perché a volte il Male è frutto programmatico e a volte esplode, così. Come un mass murderer in una scuola in un Paese in cui le armi sono a disposizione dei civili. Come una serie da guardare d’un fiato per il prurito del tema e purtroppo non tanto, ammettiamolo, per l’avvincente ritmo narrativo.
Se siamo ancora qui a guardare le storie della gente che ammazza, sembra dirci Murphy, il merito è di Ed Gein. Sul resto, qualsiasi resto (umano, pure) si può jazzare. Ci piace, non ci piace, è importante? Chissà quando ci stancheremo di queste storie dell’orrore. Forse mai. Ma sarebbe bello poter dire di crederci un po’, alla fine. Altrimenti tanto vale tornare davanti al caminetto nelle notti di tempesta ad ascoltare un nonno ubriaco per una scarica di adrenalina. Perché poi, al netto di tutto, è sempre di questo che stiamo parlando.









