‘Dept. Q – Sezione casi irrisolti’ è la serie da vedere in questo momento | Rolling Stone Italia
Slow(er) horses

‘Dept. Q – Sezione casi irrisolti’ è la serie da vedere in questo momento

Lo show Netflix starring Matthew Goode è un divertente mix tra crime e commedia, ma con la solita umanità “made in Britain”. Merito del cast e dello showrunner Scott Frank, già dietro ‘La regina degli scacchi’

‘Dept. Q – Sezione casi irrisolti’ è la serie da vedere in questo momento

Matthew Goode in ‘Dept. Q – Sezione casi irrisolti’

Foto: Netflix

A nessuno piace Carl Morck, soprattutto perché chiarisce fin da subito e spesso quanto poco gli piacciano le persone. Tutto e tutti sono un’occasione per lamentarsi. È un poliziotto inglese finito a lavorare in Scozia a causa di un matrimonio finito da tempo. È molto più intelligente di chiunque altro nel suo dipartimento, a eccezione – forse – del suo partner Hardy, e persino pensare a Hardy lo fa arrabbiare, perché la serie si apre con i due personaggi feriti da un criminale sconosciuto. Avventura che lascia Carl con una brutta cicatrice sul collo e Hardy parzialmente paralizzato.

Quando incontra un agente di polizia di una piccola isola scozzese, Carl cerca di fingere una chiacchierata insinuando che il meteo locale non gli piaccia. “Ti conosco da appena due minuti”, dice l’agente, “e ho già la sensazione che non ci sia molto che ti vada bene”.

Quindi, no, Carl, interpretato da Matthew Goode, non è un uomo facile da apprezzare, figuriamoci da amare. Eppure la serie Netflix costruita attorno a lui, Dept. Q – Sezione casi irrisolti (adattamento dei romanzi noir danesi di Jussi Adler-Olsen), si rivela sorprendentemente piacevole, e al tempo stesso triste, divertente, spaventosa ed elettrizzante. Come il suo personaggio principale, è straordinariamente efficace in quello che fa, ma non condivide il suo bisogno di rendere infelici tutti coloro che le stanno intorno.

È la terza serie Netflix dello showrunner Scott Frank. La prima è stata l’ambiziosa (a tratti fin troppo) Godless, western che ha vinto tre Emmy. La seconda il period drama “da tavolo” La regina degli scacchi, che ha conquistato 11 Emmy e ha fatto di Anya Taylor-Joy una star. Mentre Frank ha scritto e diretto tutte le puntate delle serie precedenti, questa è più una collaborazione; il primo episodio, ad esempio, è stato co-sceneggiato da Chandni Lakhani. È anche molto più semplice delle due precedenti, costruita per il lungo periodo di adattamento di tutti i libri di Adler-Olsen che Netflix pagherà. Basandosi sulla prima stagione di nove episodi, una serie di più stagioni sarebbe molto gradita.

Dept. Q si apre con Carl e Hardy (Jamie Sives) che vengono feriti in quella che sembra una normale scena del crimine, poi fa un salto in avanti di qualche mese, al ritorno di Carl al lavoro, dove nessuno prova simpatia per lui perché è un tipo stronzo e deliberatamente irritante. “Ti sei mai chiesto perché la gente ti odia?”, chiede il suo capo, Moira (Kate Dickie). “No”, risponde lui scrollando le spalle.

Quando Moira riceve un cospicuo finanziamento governativo per istituire una squadra per i casi irrisolti, in gran parte come trovata pubblicitaria, vede l’opportunità di prendere più piccioni con una fava. Assegna a Carl il compito di gestire una squadra da solo, lavorando in un ufficio seminterrato che un tempo ospitava un bagno, in modo che nessun altro debba occuparsene, e si appropria della maggior parte dei fondi del finanziamento per aggiornare le attrezzature utilizzate dal resto del suo dipartimento.

Dept. Q - Sezione casi irrisolti | Trailer ufficiale | Netflix Italia

Ma poi Carl si ritrova in qualche modo a capo di un’intera isola di poliziotti disadattati, distrutti quanto lui. Akram (Alexej Manvelov), un rifugiato che faceva il poliziotto – ma lui non vuole entrare nei dettagli – nella sua nativa Siria, viene assunto come assistente di Carl e si rivela rapidamente un incrocio tra Lester Freamon di The Wire (entrambi prediligono i gilet) e Jack Reacher. Rose (Leah Byrne), costretta a svolgere lavori d’ufficio da quando ha avuto un crollo mentale causato da un terribile incidente in servizio, si rende conto di poter tornare a lavorare seriamente se si trasferisce in cantina, e si dimostra un’investigatrice tenace che ha solo bisogno di affermarsi di più. E Carl capisce che un nuovo caso è proprio quello che ci vuole per tirare Hardy fuori dalla sua spirale di autocommiserazione. Sono stati tutti scartati e sottovalutati, e tutti sono capaci di fare molto più del lavoro senza futuro che è stato assegnato loro.

In altre parole, si tratta di una Slow Horses con un po’ più di calore e decisamente meno flatulenza. Il primo di questi libri precede di qualche anno il primo romanzo di Slow Horses – molti di essi sono già stati trasformati in film in Danimarca – ma i temi e il tono sono abbastanza simili da piacere a chiunque si sia innamorato di Gary Oldman e compagnia nella spy serie di Apple.

La prima stagione si concentra principalmente su un singolo caso: la scomparsa di Merritt Lingard (Chloe Pirrie), un pubblico ministero locale che, a modo suo, è sgradevole quanto Carl (Moira li descrive entrambi come strumenti contundenti). Ma oltre a scoprire molto su Merritt attraverso dei flashback, seguiamo anche l’indagine su chi ha sparato a Carl e Hardy, vediamo Carl lottare per entrare in contatto con il figliastro che la sua ex gli ha affidato e seguiamo il tentativo, prevedibilmente turbolento, di Carl di ottenere una consulenza per il disturbo da stress post-traumatico dalla terapeuta Rachel Irving (Kelly Macdonald). Quest’ultima sottotrama è deliziosamente imbarazzante, con la dottoressa Irving che trova gradualmente il modo di ottenere consigli utili attraverso la testa dura del suo paziente, mentre Carl, il detective stacanovista, inizia a capire che è un “giocattolo rotto” proprio come tutti gli altri.

Il cast è fantastico e gli attori si completano a vicenda. Goode è un nervo scoperto, pronto a scagliarsi contro chiunque gli stia intorno per la minima offesa, il che lo rende un ottimo abbinamento per la discreta freddezza di Manvelov nei panni di Akram, chiaramente molto più pericoloso di quanto il suo atteggiamento riservato ed educato suggerisca. Macdonald continua a essere un’eccellente spalla comica quando le viene data la possibilità, e interpreta la dottoressa Irving con quel pizzico di grinta che basta a far capire che dovremmo essere molto turbati dal comportamento di Carl, a prescindere da quanto sia divertente.

Ma tra le cose migliori che Frank e soci fanno c’è quella di lasciare che dolore e farsa coesistano pacificamente. Dept. Q è una serie divertente quando vuole esserlo, spaventosa quando vuole esserlo e toccante quando vuole esserlo – il che è molto più di quanto ci si possa aspettare. Ma non si avverte mai un colpo di frusta quando passa da un registro all’altro, a volte persino all’interno della stessa scena. Ci sono personaggi secondari – come Shirley Henderson nei panni di Claire, ex governante di Merritt e caregiver del fratello con disabilità dello sviluppo – che a prima vista sembrano caricature, per poi finire a essere elementi chiave di scene che potrebbero farvi venire voglia di prendere un fazzoletto o due.

Il mistero su dove Merritt sia scomparsa e perché forse non richiede nove ore. Ma il piacere di trascorrere del tempo extra con questo gruppo di investigatori incredibilmente brillanti e imperfetti – Rose a un certo punto tira fuori una lente d’ingrandimento, mentre Hardy ama citare l’eroe detective da poltrona degli anni ’30 Nero Wolfe – giustifica ampiamente qualsiasi colpo di scena non necessario alla storia principale.

Mentre Rose usa un consiglio di Hardy per provare a interrogare di nuovo un testimone riluttante, lui le chiede: “Ma sei davvero una poliziotta?”. Lei risponde: “Mi faccio spesso la stessa domanda”. A quel punto, l’unica domanda che mi faccio io è se Netflix riuscirà a sfornare altre stagioni con la stessa rapidità e affidabilità di Apple con Slow Horses.

Da Rolling Stone US

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