***ATTENZIONE: il pezzo contiene spoiler sul finale***
Non è un grido, non è una rivoluzione, non è nemmeno un’esplosione di sangue, vendetta o giustizia – ed è proprio qui, forse, che The Handmaid’s Tale resta fedele a se stessa fino all’ultimo frame. Alla fine è qualcosa di ancora più potente: un clic. Secco, metallico, carico di tutto. Il suono di un registratore che si accende. Lo stesso clic che si sentiva alla fine del primo episodio nel 2017, lo stesso incipit del romanzo di Margaret Atwood, quando ancora non sapevamo chi fosse davvero June Osborne, né quanto saremmo stati disposti a soffrire con lei.
Era già tutto lì: una sedia, un tavolo, una lampada. E una donna, l’ancella Difred, seduta nella sua stanza (dis)adorna di quel poco che le era concesso. Il monologo interiore pronunciato da Elisabeth Moss finiva con uno sguardo in camera che devastava e una dichiarazione d’identità necessaria: «Mi chiamo June». Il nome proibito, cancellato dalla teocrazia di Gilead, ma ancora vivo dentro di lei come ultimo baluardo di umanità.
Nel finale June torna in quella casa-prigione, ora ridotta a rovina, ci cammina dentro come in un museo degli orrori privato, accarezza la carta da parati carbonizzata. Moss, anche alla regia dell’episodio, la inquadra con cinefila devozione: long take, niente lacrime facili, solo macerie e respiro. Non c’è più nulla da distruggere, solo da ricordare. June si siede, si guarda intorno, accende e ricomincia a elencare: «Una sedia. Un tavolo. Una lampada…». Ma stavolta è lei a scegliere di raccontare, a riprendere possesso della propria voce («Nessuno racconta mai una storia solo a se stesso. C’è sempre qualcun altro. Anche quando non c’è nessuno», cit. Atwood). E lo fa usando lo stesso nome che Gilead le aveva imposto: Difred. Sbam. Perché anche quello fa parte della sua storia. E perché solo raccontando davvero tutto si può sperare che non accada di nuovo.
È proprio da quel clic che The Handmaid’s Tale (la sesta stagione in esclusiva per l’Italia su TimVision) diventa davvero “il racconto dell’ancella”: la sua voce, la sua storia, la sua versione dei fatti. Il racconto come arma, come resistenza, come eredità. È il momento in cui la vittima diventa narratrice, in cui il trauma si trasforma in testimonianza: «Se torni indietro e guardi l’episodio pilota, puoi sentirla cliccare su quel registratore che usa alla fine della serie per iniziare a registrare The Handmaid’s Tale – e non siamo tornati indietro per inserirlo, era lì», ha spiegato a Variety lo showrunner Bruce Miller. Quasi come se il finale fosse già stato scritto nel primo minuto del primo episodio, e noi non ce ne fossimo accorti. Come se, in fondo, June avesse sempre saputo che un giorno sarebbe arrivata qui: irrimediabilmente spezzata, ma ancora abbastanza forte da dire al mondo cosa è successo. Non è un finale che chiude, ma uno che apre: alla memoria, alla riflessione, alla possibilità di un futuro diverso.
«Un sussurro che diventerà un’onda» (cit.) anche attraverso due picchi musicali memorabili e in qualche modo opposti. Prima la sequenza più brutale e liberatoria: Look What You Made Me Do di Taylor Swift sul regolamento di conti delle ragazze con i loro aguzzini (nono episodio). Non è solo un cameo vocale (pare che Tay sia nella scena, girata di spalle): è un passaggio di testimone tra due icone femminili della sopravvivenza mediatica, la popstar e l’ancella, entrambe pronte a riscrivere la propria narrativa. Elisabeth Moss ha affermato di aver personalmente chiesto la canzone a Swift, che ha detto sì da fan della serie e da esperta di vendette in formato storytelling. Non è solo una scelta musicale: è una dichiarazione d’intenti. È la trasformazione della collera in rituale, della sopravvivenza in rivolta. Taylor “era morta”, diceva in quella canzone del 2017, e poi è tornata. Le ancelle anche. Dopo anni di abusi e silenzi, le donne di Gilead iniziano a reclamare qualcosa e trasformano la violenza subita in un gesto estremo e definitivo. È il brano di chi ha subìto, incassato, e ora si vendica con stile. Ma non è giustizia poetica: è rabbia estetizzata, glamour post-traumatico. È «uno squarcio di contemporaneità in un mondo distopico» (Variety dixit), è lo show che pianta un seme nella cultura social, eco e insieme cortocircuito: la voce più mainstream del femminismo pop che chiude una serie che il femminismo pop l’ha ispirato, complicato, attraversato.

Elisabeth Moss (June) e Yvonne Strahovski (Serena) Foto: Steve Wilkie/Disney
E poi c’è Landslide su un momento che è una carezza e insieme uno strappo: June, Moira, Janine (che prima vediamo finalmente – e forse un po’ frettolosamente – libera e ricongiunta con la figlia Charlotte/Angela), Rita, tutte insieme in un malinconico karaoke dell’anima, una realtà parallela e onirica in cui, per un attimo, sembrano libere e probabilmente lo sono sempre state. Se June non fosse mai stata a Gilead non avrebbe sofferto così, ma non avrebbe nemmeno conosciuto loro. Cantano Stevie Nicks come fosse una preghiera laica: “Can I sail through the changing ocean tides? Can I handle the seasons of my life?”, come se potessero tornare indietro e il tempo riuscisse davvero a guarire qualcosa, come se l’amicizia e la musica potessero, anche solo per un attimo, anestetizzare il dolore. Non è un sogno, non è nemmeno un flashback. È un momento di sospensione, forse di pace dolceamara, surreale, una bolla fuori dal tempo. O solo una fantasia impossibile che il trauma ogni tanto concede.
La sesta stagione era partita promettendo la madre di tutte le rivoluzioni, dopo l’ottava e la nona puntata sembrava davvero che tutto dovesse in qualche modo finire nel sangue, ma – di nuovo – non sarebbe stata Handmaid’s Tale. Ovviamente c’è la guerriglia sotterranea di Mayday, c’è la sorellanza armata (di coltello) con le ancelle chiamate alla vendetta in prima persona, c’è l’insurrezione di piazza per salvare June e le altre ragazze dall’impiccagione e c’è il sacrificio consapevole del Comandante Lawrence e quello inconsapevole di Nick. Ma, nel suo spirito di distopia quasi contemplativa, la serie abbandona la tentazione dello showdown apocalittico finale per qualcosa di molto più sobrio, molto più adulto. Sceglie il realismo politico e la fatica della resistenza quotidiana, che non finisce certo dopo la rivoluzione: ogni passo avanti ha il peso, lento e gravoso, di una trattativa, di un’alleanza scomoda, di una scelta morale che ti lascia addosso sempre una sfumatura di colpa. Gilead ha perso Boston dopo la bomba che ha falciato i suoi più alti Comandanti, ma non è ancora sconfitta. Bisogna riorganizzare tutto, ripristinare l’energia elettrica, riportare la giustizia e l’umanità dove Hannah è ancora prigioniera (bellissimi i flashback e i sogni di June sulla figlia). «Bisogna distruggere la dittatura pezzo per pezzo per andare a riprendersela», dice Luke. Sappiamo che non accadrà, perché Margaret Atwood nel 2019 ha scritto The Testaments (ci torniamo). Ma «bisogna continuare a lottare per le nostre figlie e le nostre nipoti», incita June.

Max Minghella (Nick) e Bradley Whitford (Lawrence). Foto: Steve Wilkie/Disney
Da madre di Hannah (e Nichole), attraverso l’incubo di essere umano la cui unica ragion d’essere era portare in grembo figli per altri, June decide di affidare ancora la secondogenita alla madre per cercare la prima ma, in qualche modo, sceglie anche un maternage collettivo e programmatico. Prima di diventare donna libera, c’è però l’atto ultimo del suo essere ancella: lasciare necessariamente andare Nick, un amore di cui non si capacitava e che non riusciva a risolvere (devastante lo sguardo verso il garage vuoto e semidistrutto!), bruciare il mantello rosso (è l’ultima scena girata, davvero) e perdonare Serena (perfetta la sua chiusura, da sopravvissuta progressista di Gilead, ne ridiventa per qualche momento la regina, per poi ritrovarsi rifugiata senza documenti e, prima di tutto – sì, again – madre). Se la vendetta è il gesto che ci aspettavamo, il perdono è il colpo di scena più radicale. È la possibilità di ricominciare, un gesto politico, emotivo, spirituale. È June che decide di non restare prigioniera della rabbia, di smettere di bruciare, e in questo è più sovversiva di chiunque altro. In un mondo dove tutto è stato costruito per controllare il corpo e la volontà delle donne, scegliere di non odiare più è la presa di consapevolezza totale. Perché anche il fuoco, se non lo spegni, prima o poi diventa cenere.
E mentre June chiude simbolicamente – e letteralmente – il cerchio iniziato con quel clic sul registratore, la serie si congeda con un saluto che non è affatto un addio. È già tutto pronto per The Testaments, il nuovo show tratto dal seguito del romanzo di Margaret Atwood, ambientato quindici anni dopo gli eventi che abbiamo appena visto e starring Hannah/Agnes che cresce a Gilead, Olly/Nichole in Canada e zia Lydia trasformata in arma di distruzione del patriarcato.

Elisabeth Moss (June) con Nichole. Foto: Steve Wilkie/Disney
Il passaggio di testimone non è solo narrativo, ma anche politico. Se The Handmaid’s Tale era la storia della resistenza di una donna e della costruzione faticosa e dolorosa della sua voce, The Testaments sarà la storia delle eredi, di chi quella voce l’ha sentita e dovrà decidere cosa farsene. In un certo senso, June diventa già un personaggio leggendario, una figura mitologica: la donna che ha raccontato l’orrore, il simbolo della memoria. L’apertura verso The Testaments racconta che la lotta non è finita, ha solo cambiato generazione. E il fatto che la nuova serie sarà guidata ancora una volta da Bruce Miller, insieme a Warren Littlefield e Elisabeth Moss come produttrice esecutiva, fa pensare che la fiaccola accesa da June non verrà spenta così facilmente.
Insomma, la distopia continua, ma con nuove testimoni. E forse anche con nuove domande: cosa vuol dire crescere in un mondo nato dalla distruzione di quello vecchio? E come si fa a ribellarsi quando la rivoluzione precedente non ha funzionato del tutto? The Handmaid’s Tale sarà anche finita, ma la lotta invece non finisce certo con i titoli di coda.