Rolling Stone Italia

Cosa siamo disposti a fare per essere meno miserabili? ‘Squid Game’ ha la risposta, e non ci piacerà

La serie Netflix ‘made in South Corea’ diventata un fenomeno in tutto il mondo (Italia compresa) è il racconto di un popolo che si fonda su contrasti inconciliabili, ma anche di noi che lo osserviamo. Fingendo di essere migliori: sicuri?

Foto: Netflix

Lo scorso 29 settembre, l’ex editorialista del New York Times Bari Weiss ha ospitato nella sua (bellissima) newsletter Common Sense with Bari Weiss un’intervista a Glenn C. Loury, forse l’intellettuale americano più lucido e disincantato della nostra epoca. Durante la lunga conversazione, Loury ha ribadito la grande verità capace di far accapponare la pelle anche agli insospettabili: il razzismo molte volte è una scusa, perché ciò che si nasconde lì dietro in realtà si chiama classismo. Tradotto: non abbiamo paura del nero. Abbiamo paura del povero, qualsiasi sia la sua etnia.

La povertà ci imbarazza, ci infastidisce, ci irretisce e solletica istinti tra loro diametralmente opposti: il nostro senso di colpa cattolico, una profonda invidia sociale, il desiderio inconfessabile d’essere superiori. Ecco perché, sempre più spesso, preferiamo definirla, appunto, razzismo: temere chi appartiene a una razza diversa dalla nostra resta comunque più presentabile rispetto a temere chi non si situa al nostro stesso livello socioeconomico, nonché culturale.

Squid Game, la serie sudcoreana firmata da Hwang Dong-hyuk per Netflix e diventata nel giro di due settimane un autentico fenomeno – non soltanto la più vista nel nostro Paese, ma in più di novanta dove il servizio è disponibile, Stati Uniti compresi – a fronte di nessun battage pubblicitario e nessun doppiaggio in italiano (quindi i sottotitoli non ci danno così fastidio!), parte da un presupposto scomodo: cosa siamo disposti a fare per scrollarci di dosso la povertà? Il motore di questa specie di “Hunger Games dei parassiti” è un padre divorziato, Gi-hun (Lee Jung-jae), uno scommettitore incallito che non conosce il dovere e la responsabilità, uno che campa d’espedienti e sulle spalle dell’anziana madre, a cui di tanto in tanto ruba i soldi.

Gi-hun è l’antieroe per antonomasia, uno dei 456 concorrenti disperati, indebitati e disgraziati che hanno l’opportunità di vincere più di 45 miliardi di won (circa 40 milioni di euro, milione più, milione meno), riavvolgere il nastro dei loro orrori privati e regalarsi un nuovo (ricco) inizio. Il prezzo da pagare – no pun intended – consiste nel partecipare a una sfilza di giochi d’infanzia, dove vige una regola universale: se perdi, muori. E la morte, chiaramente, rappresenta un rischio meno angosciante di continuare a sguazzare in una vita di miserie.

I protagonisti di ‘Squid Game’. Foto: Netflix

Non è un caso che Squid Game sia un prodotto “made in South Corea”: il cinema sudcoreano infatti già da tempo (leggi alla voce Parasite, Oldboy, eccetera) si diverte a esplorare con sguardo cinico e spietato le pieghe di una nazione in precario equilibrio tra contrasti inconciliabili. Una nazione con una corruzione dilagante, parecchio bigotta, iper-competitiva, fortemente gerarchica, in cui il divario sociale – tipico lascito dello sforzo economico di una potenza in ascesa – è insanabile e vede da un lato i poverissimi, dall’altro i ricchissimi.

La pressione per essere i migliori è quasi violenta, e incomincia sin dalle scuole elementari: se non eccelli sei un fallito, e per eccellere ti devi fare un mazzo ai limiti del disumano. It’s turbocapitalismo, baby: l’euforia di un popolo (ex) oppresso galvanizzato dal benessere improvviso che sembra parlare a chiunque genera mostri, come le bolle speculative che scoppiano con drammatiche ricadute; il consumismo incontrollato e compulsivo; l’indebitamento di un’intera generazione.

«Cos’è, un nuovo schema piramidale?», domanda Gi-hun al suo giovane adescatore in metropolitana. «Non sono coì ingenuo», puntualizza, riferendosi a un dettaglio apparentemente insignificante per il pubblico internazionale, ma emblematico per quello coreano. La Corea del Sud è piena zeppa di negozi in franchising, ce ne sono talmente tanti che in media quattro proprietari su dieci chiudono in meno di un anno. Il meccanismo è semplice: ci si accorge che qualcosa – le macchinette acchiappa-pupazzi; il patbingsu, dessert di ghiaccio tritato con vari topping; il gelato con l’honeycomb – va di moda, i negozi spuntano come funghi e poi, causa l’eccessiva concorrenza o la stagionalità dell’offerta, falliscono in un battito di ciglia.

Un caso tristemente passato alla storia è costituito dalle pasticcerie taiwanesi: tra il 2016 e il 2017 tutti ne erano ossessionati e i punti vendita erano ovunque, finché l’intera attività (che ricalcava uno schema Ponzi) ha raggiunto il culmine ed è stata condannata a morte dai media. La king castella cake, presunta delizia attorno alla quale ruotava l’operazione, venne accusata in un famoso show televisivo d’essere malsana, di contenere una dose eccessiva di olio di dubbia provenienza e di venire sfornata in maniera poco igienica.

Morale, nel giro di un anno il business collassò, e con esso una middle class di sudcoreani che avevano investito i sudatissimi risparmi in un’attività ritenuta potenzialmente remunerativa: coperti di debiti e impossibilitati a trovare un nuovo lavoro, si trasformarono nei parassiti di una società che prima li aveva accolti a braccia aperte, e ora invece li sputava.

Sul finire di Squid Game, si dice esista una cosa che accomuna chi non ha soldi a chi ne ha troppi: «Per entrambi, vivere non è divertente», ma è davvero difficile immaginare che i primi possano trovarsi d’accordo. Qualche giorno fa, chiacchierando con un’amica, abbiamo convenuto che la tesi su cui si basa la serie non è poi così astrusa: anche qui, in una società migliore di quella coreana, diverse persone – per avidità, per disperazione, per miseria – accetterebbero di partecipare a un simile gioco al massacro pur di trasformarsi in milionari.

Abbiamo evitato di chiederci se noi stesse, in quella posizione, avremmo acconsentito. Esattamente come abbiamo evitato di porci un’altra domanda: «Quel tizio, laggiù. Dev’essere ubriaco. È lì da ore, sembra un senzatetto. Morirà congelato se resta là fuori, ma nessuno lo sta aiutando. Tu cosa faresti? Ti fermeresti ad aiutare quella specie di rifiuto umano puzzolente?». Caro Glenn C. Loury, qui lo scrivo e qui lo ribadisco: ci vuol parecchia faccia tosta a sostenere che tu non abbia ragione.

Iscriviti