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Corto è bello: dateci solo serie di poche puntate, grazie

Una miniserie a regola d’arte conta circa sei episodi, la si finisce rapidamente, non sfida la memoria a breve termine e non mina la convivenza: è la nostra droga in quarantena. Fortuna che le piattaforme ne sfornano sempre di più

Emma Thompson in 'Years and 'Years'

In principio fu Black Mirror, e Black Mirror ai tempi era presso Channel 4. Correva l’anno 2011, Netflix era solo una vaghissima ipotesi, e quei tre episodi ci misero al tappeto. Fu un rapporto breve ma parecchio intenso, e col senno di poi imparammo sia che le cose britanniche vanno lasciate ai britannici, sia che tre episodi non erano pochi: erano perfetti.

Tre anni dopo, è stato il turno di quel gioiello di Olive Kitteridge, dall’omonimo romanzo di Elizabeth Strout vincitore del Pulitzer: lo firmava Lisa Cholodenko, lo trasmetteva HBO, le puntate erano quattro e Frances McDormand era – come al solito – una spanna sopra, tanto da essere travolta da un’ondata di (meritatissimi) premi. Potremmo continuare a passeggiare nostalgicamente sul viale dei ricordi, ma sarebbe solo una banale scusa per evitare il dubbio amletico alla base della questione: quanti sono gli episodi che definiscono una miniserie televisiva?

Se ci dovessimo attenere a quanto postulato dai Golden Globe, la risposta corretta è: vale il contenuto (che limita temi e personaggi a una stagione che può considerarsi conclusa) e non la quantità di episodi. Che, a patto che la durata totale della serie sia di almeno 150 minuti, possono raggiungere un numero indefinito. Tanti insomma, pure troppi. Soprattutto alla luce della bizzarra situazione in cui ci troviamo: costretti in casa, vittime di un preoccupante deficit d’attenzione e bisognosi come non mai di un intrattenimento in versione concentrata, che non abbia quel fastidioso retrogusto di brodo allungato e si dimostri capace d’azzerare la noia delle interminabili serate in attesa dell’ennesimo decreto. Ciò premesso, qui lo diciamo e qui lo confermiamo: una miniserie a regola d’arte per noi conta al massimo sei episodi, la si finisce rapidamente, non sfida la memoria a breve termine e non mina la convivenza, il che non è affatto scontato. In un’epoca dove le battaglie importanti avvengono davanti alla schermata di Netflix o di Amazon Prime Video, nessuno potrà mai rinfacciarvi d’averlo costretto a vedere un’infilata pressoché infinita di puntate e sottoposto a una tortura lunga giorni, settimane. Una miniserie s’esaurisce nell’arco di ventiquattr’ore se siete dei veri PRO (e non avete un tubo da fare), al limite in un weekend, dandovi tutto il tempo d’impastare la pizza la domenica pomeriggio e di documentare l’impresa su Instagram. Una miniserie si dimentica in fretta se non ha incontrato i propri gusti, ma rimane anche scolpita della memoria se – al contrario – si tratta di un piccolo capolavoro condensato in quattro o sei parti da un’ora ciascuna. E, in quest’ultimo caso, c’è di più. Perché, una volta conclusa la visione, subentra una specie di sindrome del tossico in crisi d’astinenza: ne vorremmo ancora però non si può, è stato fantastico finché è durato e adesso occorre affrontare la spasmodica ricerca d’un sostituto in grado di emozionare allo stesso modo.

La quarantena sembra c’abbia trasformato in junkie da miniserie, una dipendenza alimentata dalle piattaforme di streaming e dalle emittenti televisive, che già da un po’ sfornano titoli su titoli sempre più corti. Lo scorso 16 marzo ha debuttato su HBO The Plot Against America, tratta dal romanzo fantapolitico di Philip Roth Il complotto contro l’America. Si narra l’ascesa al potere di Charles Lindbergh, l’aviatore che ha tramutato gli Stati Uniti in un Paese fascista alleato con i nazisti, con un cast in cui figurano Winona Ryder, Zoe Kazan, Morgan Spector e John Turturro. Sei puntate totali, dirette da Minkie Spiro e Thomas Schlamme: tutto bellissimo, tutti bravissimi, eppure manca qualcosa, o forse è soltanto l’estrema difficoltà ad adattare Roth (American Pastoral di Ewan Gordon McGregor, stiamo parlando di te), che riduce la miniserie a un compitino ben svolto, a tratti pallosetto. Ma appunto, sono sei puntate: vogliamo davvero prendercela?

Netflix risponde con Unorthodox, creata da Anna Winger e Alexa Karolinski – ispirata all’autobiografia di Deborah Feldman Unorthodox: The Scandalous Rejection of My Hasidic Roots – e con Self-Made, tratta dal libro On Her Own Ground di A’Lelia Bundles. Entrambe di quattro episodi, con un tratto comune: il racconto dell’emancipazione delle due protagoniste (rispettivamente, la magnifica Shira Haas e l’altrettanto stupenda Octavia Spencer), che fuggono da un destino preconfezionato reinventandosi coraggiosamente una vita. Se la prima è di gran lunga migliore, la seconda – nonostante le pecche e le ingenuità – brilla della luce di Spencer ed è un valido divertissement da divano, leggero quanto basta per staccare il cervello e far volare via una serata. Decisamente su altri toni (e un po’ più vecchiotta, ma nulla vieta di recuperare) When They See Us di Ava DuVernay, che in quattro capitoli riporta la vicenda dei Central Park Five, i cinque ragazzi ingiustamente accusati di un crimine che non avevano commesso nella New York di fine anni ’80. Più che una miniserie, un calvario: si piange, ci s’indigna e si soffre per circa cinque ore. Siamo sicuri di meritarcelo?

In caso di risposta affermativa, allora si può proseguire brindando al masochismo davanti a Chernobyl – creata e scritta da Craig Mazin e diretta da Johan Renck, co-produzione HBO/Sky – su Sky Atlantic e NOW TV, che con le sue cinque puntate lo scorso anno s’è aggiudicata tutto l’aggiudicabile, compresi i premi che ancora non esistono. Se a morte, distruzione, reattori nucleari, ingegneri corrotti, Gorbačëv, agenti del KGB e colori desaturati si preferisce la sicurezza del caro, vecchio Occidente, allora (sempre su Sky Atlantic e NOW TV) c’è Catch-22, la miniserie co-prodotta e co-diretta da George Clooney, adattamento del romanzo Comma 22 di Joseph Heller. Sei episodi con un Christopher Abbott (l’indimenticato Charlie Dattolo di Girls) in grande spolvero, per un’epopea tragicomica che ha come unico obiettivo rappresentare la follia, l’orrore – e talvolta il nonsense – generato dagli uomini attraverso la guerra. Rimanendo in tema di guerre, senza dover cambiare piattaforma ma tornando per un attimo nella cosiddetta Matuška Rossija, ecco Caterina la Grande, drammone storico in quattro parti scritto da Nigel Williams con protagonista Helen Mirren (e il suo botox). Mirren interpreta la zarina emblema del dispotismo illuminato, una formidabile stratega piuttosto superba, lasciva e collezionista d’amanti: non mancano il belletto, l’acido ialuronico e lo Sturm und Drang in versione terza età con il generale Grigorij Aleksandrovič Potëmkin (Jason Clarke), col quale Caterina intraprese una chiacchieratissima relazione. Più Harmony che fedele ricostruzione storica, ma sono pur sempre quattro capitoli: troppo pochi per arrabbiarsi o rimanerci male, come recita la regola alla base di qualsiasi miniserie.



Ultima, eppure fondamentale, Years and Years, opera del 2019 di Russell T Davies che mischia insieme fantapolitica, transumanesimo, Brexit, crisi economica, populismo, migranti, profughi e bambini gender fluid. Sei episodi che coprono un arco temporale di quindici anni, durante cui si dipanano le vicende della famiglia Lyon, di stanza a Manchester: sullo sfondo, la strepitosa Emma Thompson nei panni della spietata Vivienne Rook, la politica grillina che non conosce scrupoli o pietà, e la deriva razzista e omofoba di una nazione (anzi, di un intero continente) che è sì fiction, ma assomiglia pericolosamente alla realtà di un futuro prossimo. Andata in onda sulla BBC, da noi è stata distribuita il 5 marzo 2020 su Starz Play, e molti l’hanno considerata, a ragione, la serie – anzi, la miniserie – dell’anno: poteva essere un’accozzaglia di tematiche e idee agli antipodi senza né capo né coda, ma gli sceneggiatori inglesi c’hanno insegnato per l’ennesima volta come si costruisce una narrazione ineccepibile anche quando ha dell’incredibile. Tenuto poi conto che la BBC è (passatemi il paragone) la nostra Rai 1, beh, allora gridare al miracolo non è soltanto comprensibile, bensì doveroso. Almeno fino alla prossima dose… ehm, miniserie.

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