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Con ‘Vita da Carlo’ Verdone torna il capocomico italiano della malinconia

L’autobiografia reinventata del Maestro romano è da leggere soprattutto nelle sottotrame: che, grazie a tanti alter ego ancora più funzionali del ‘vero’ protagonista, riportano la sua scrittura ai toni che l’hanno reso unico

Foto: Gianfilippo De Rossi/Amazon Prime Video

Vita da Carlo, dal 5 novembre in 10 puntate su Amazon Prime Video, racconta una storia abbastanza semplice: Carlo Verdone non riesce a trascorrere una sola giornata serena. È dilaniato tra le equivalenti sollecitazioni dei due figli fittizi, Giovanni e Maddalena, che adora ma con cui il dialogo, come per tutti i figli, soprattutto quelli veri, sembra fatto di parole crociate crittografate; della governante ereditata dal padre che minaccia vertenze; delle velleità autoriali dello sceneggiatore con cui vorrebbe fare un film engagé; delle ambizioni pecuniarie del produttore con cui dovrebbe realizzare un sequel di Viaggi di nozze; dei fan che gli chiedono in continuazione sparamose un selfie (c’è perfino uno – tratto da una storia vera – che gliene chiede uno da riverso sull’asfalto dopo un incidente in motorino); del centrosinistra romano che gli chiede di candidarsi a sindaco.

Teso tra il tentativo di fare qualcosa di utile per la sua vita – o, perlomeno, per la sua città – e qualcosa di significativo per il cinema, la candidatura e la pellicola d’autore sembrano a Carlo due facce della stessa medaglia. Del resto cos’è un candidato sindaco se non il protagonista di un film che all’inizio della campagna elettorale può sembrare un capolavoro ma poi, dopo il voto, anche in caso di vittoria, si rivela tanto spesso un cinepanettone?

Questo uomo di spettacolo popolarissimo e affabilissimo è afflitto soprattutto dalla solitudine emotiva cui tutto ciò lo costringe. Impegnarsi per la propria città, girare un film serio, capire i figli, innamorarsi di nuovo sono propositi irrealizzabili per un solo problema di fondo: Verdone è impossibilitato a essere fedele a sé stesso perché appartiene a tutti. La pressione delle aspettative altrui sul suo destino è talmente forte da renderlo oggetto di appropriazione indebita da parte del prossimo e del pubblico. Il risultato è che, prima di andare a dormire, Carlo è costretto a dirsi: “Me faccio l’anestesia totale”, prima di assumere il consueto sovradosaggio di sonnifero.

Per la prima volta il personaggio principale di un’opera di Carlo Verdone è letteralmente Carlo Verdone, ma non come accadeva a Tina Pica o a Totò nei film che si intitolavano La Pica sul Pacifico o Totò contro il pirata nero. Qui Verdone garantisce che almeno il 40% di quello che vediamo è reale. Angelo Pintus, più modestamente, sempre per Amazon Prime Video, ha girato una sua origin story: Before Pintus. Questa di Verdone vorrebbe essere più che altro una exit strategy, e non solo per i personaggi indimenticabili che hanno caratterizzato alcuni dei suoi primi grandi successi cinematografici, ma anche per il personaggio solo parzialmente autobiografico che ha dominato la seconda parte della sua carriera.

Per le qualità di scrittura e interpretazione del suo protagonista potremmo accogliere la prima serie televisiva di e con Verdone semplicemente con un rinfrancante: bentornato, Carle’. Ma è per l’interesse che desta l’organigramma delle numerose guest star che, dopo più di qualche incertezza nell’ispirazione, possiamo dire che, con Vita da Carlo, Verdone si sia ripreso lo scettro da capocomico della malinconia italiana. Un Verdone capace sì di intrattenere nella trama principale, ma di deliziarci sottotraccia.

Il sospetto che il significato dei personaggi secondari della serie non si limiti solo a un livello letterale ci viene dalla prima scena in cui compare Rosa, l’ufficio stampa fittizio di Verdone interpretata da Giada Benedetti, e dura per tutti i camei contenuti nelle dieci puntate, da quello di Rocco Papaleo a quello di Alessandro Haber, passando per Morgan. Rosa è un indizio importante almeno quanto lo è la scena di apertura della serie, con Verdone premiato a Cannes davanti a una platea costituita da tanti cartonati di Verdone, alla Charlie Kaufman. Come in Inside Out accade a Gioia o Tristezza, così in Vita da Carlo Rosa interviene sulle vicende quotidiane del suo assistito da un ufficio così assurdamente angusto e claustrofobico da non parere verosimile, ma solo simbolico: un sottoscala della coscienza verdoniana.

E se Vita da Carlo non fosse che una messa in scena dei principali tratti psicologici dell’autore, catalogati e affidati a più personaggi, più o meno reali, più o meno scaturiti dalla sua mente? La delusione cronica del monologo shakespeariano-delirante di Haber al Gianicolo; l’ansia del facce ride perenne di Max Tortora (il migliore amico del protagonista della serie, carattere comico non dimentico che il vero impegno, per lui, è non averne alcuno); la sindrome da abbandono di Paolo Calabresi (che gli fa un pitch della sua Rimini e crimini, serie true crime basata sulle indagini di un bagnino-detective), mentre minaccia di gettarsi dalla sommità del Colosseo; costoro non parlano tutti più di Carlo che a Carlo?

La giostra degli alter ego di Verdone non si ferma ai personaggi maschili e continua in quello di Anita Caprioli. Grazie a lei gli scaffali dei medicinali diventano l’unico, apparente luogo di salvezza, operati come sono da una figura degna di amor cortese, Annalisa, dispensatrice di sorrisi e altri principi attivi proprio nella storica farmacia trasteverina che sta accanto a Santa Maria della Scala, a sottolineare in modo deliziosamente autoironico la prossimità nell’immaginario verdoniano tra sacro, feminino e farmacologico.

(Uno dei vantaggi di questa chiave di lettura è che aiuterebbe, tra l’altro, ad affrontare alcuni difetti della produzione. Taluni suoi momenti volutamente comici, a dire il vero, non fanno propriamente sganasciare dalle risate. Il che non è un problema perché, in effetti, pensandoci bene, non ci sarebbe niente da ridere. Un esempio su tutti è la scena dal produttore arraffone, che propone a Carlo di mettere da parte le velleità artistiche e di girare Lo famo anziano prima che scadano i termini del contratto, non deve essere tanto dissimile da quello che veramente sarà accaduto a Verdone in veri uffici di veri produttori o, come volevasi dimostrare, in un suo potenziale incubo ricorrente pronto da girare.)

Carlo Verdone con Anita Caprioli. Foto: Gianfilippo De Rossi/Amazon Prime Video

La personificazione più straziante e al tempo stesso comica è Erminia, la fan della prima ora, malata terminale, che stalkera Carlo. Lei rappresenta non soltanto il timore della fine, ma anche e soprattutto quello del continuo confronto con l’inizio. Le osservazioni, stupende, che Erminia (una strepitosa Paola Sambo) dedica a Un sacco bello sono lucidissime e per questo fanno tanto più male accostate a quelle su Maledetto il giorno che t’ho incontrato. La sua bocca, nel bene o nel male, può dire ciò che è altrimenti indicibile per un Maestro umile ma al tempo stesso orgoglioso come Carlo.

La controparte leggera, ma non troppo, di Erminia è la pittrice che Max Tortora e signora impongono a Carlo per un appuntamento al buio. La donna (Stefania Blandeburgo, altra perla recitativa) abita in una baracca che dà su una palude (ancora dubbi sulla raffinatezza del simbolismo?) e cercherà di sedurlo con una serie di atti di trasformismo che citano le toilette e i tormentoni di Jessica in Viaggi di nozze. Per rispettare ancora una volta l’iconografia onirica, Verdone si dà alla fuga a remi sul pantano del passato. In uno dei momenti di puro divertissement della serie, dopo intere puntate trascorse a dribblare fan che gli chiedono foto ricordo, Verdone è invitato al vernissage di una mostra di selfie di Antonello Venditti, nella cornice solenne del cortile di Palazzo Altemps.

L’alter ego più importante strutturalmente è rappresentato da Chicco (Antonio Bannò), l’ex fidanzato della figlia Maddalena che ne squatta la camera da letto al termine della loro relazione e dopo la partenza di lei per un soggiorno all’estero. Chicco rappresenta un Verdone che non c’è mai stato: quello che non ha nulla da perdere, privo di ogni forma di angoscia. Per Carlo si rivelerà più che un ospite semiparassitario: un autentico doppio speculare, compagno di depressione alla Todd di Bojack Horseman, Chicco seguirà Carlo in modo insospettabilmente efficace nelle sue vicende politiche e umane.

Tra tanti talenti spesi per i camei si fa notare, purtroppo, la debolezza del cast del comparto casalingo. Il figlio maschio di Verdone, interpretato da Filippo Contri, è decisamente sottotono. Ma la sua recitazione non del tutto convincente è in qualche modo funzionale alla rappresentazione di un rapporto padre-figlio non sempre trasparente o risolto, e le sue incertezze da attore ancora non navigato ci sembrano, tutto sommato, paragonabili a quelle che potrebbe presentare un potenziale avvocato rampante (alter ego di Verdone col senso di colpa per non essere stato un professionista del tutto borghese) che percorre le prime tappe del suo cursus honorum legale, appunto, con un padre come Verdone.

Le puntate si aprono ciascuna con un sogno di Carlo. Ce n’è una, all’indomani dei primi gossip sulla possibile candidatura, in cui Verdone è al centro di un cesaricidio in costume, con un omaggio neanche tanto sottaciuto a Ignazio Marino. Nel cameo conventuale di Morgan la narrazione a occhi aperti cede talmente tanto al registro onirico da non esserne più distinguibile. Durante un ritiro spirituale che Verdone si autoprescrive all’abbazia di San Pietro in Valle, Morgan fa la sua apparizione vestito di bianco (ma col ciuffo viola) e l’ovazione dei frati alla sua semplice lettura de Vangelo farà rosicare non poco il nostro protagonista. Il resto lo farà la sua imitazione di Battiato, da annali. L’alter ego che Morgan costituisce, del resto, è l’artista maledetto che riesce a eccellere con poco sforzo.

Il cammeo di Morgan. Foto: Gianfilippo De Rossi/Amazon Prime Video

Il fascino maggiore di Vita da Carlo risiede dunque in questo doppio binario su cui è costruita: da una parte palesa contenuti verosimili o, qualora reali, piuttosto agevoli da gestire nella trama principale (a Carlo piacciono molto le medicine, ha un rapporto sui generis con la ex moglie, non ha le idee chiarissime su che direzione impartire alle sue scelte artistiche). Dall’altra le verità più profonde, quasi inconfessabili, sono nascoste tra le pieghe che prendono le varie sottotrame o le composizioni ad anello. Sarebbe altrimenti troppo tragica l’immagine di Verdone che indossa i panni storici ed esangui di un Seneca suicida nella vasca da bagno, in uno degli incipit onirici alle puntate. Carlo vince così, forse una volta per tutte, l’antica apprensione di essere l’attore giusto nel ruolo sbagliato.

Sul finale, mandati relativamente tutti a quel paese, la soluzione proposta al problema iniziale sembra essere quella di prendersi del tempo per pensare a sé; o comunque, se possibile, almeno non a nuove produzioni di serie tv allegoriche sul tema dello sbobinamento di una propria auto-terapia psicanalitica. Ma il mezzo cliffhanger con cui si chiude l’ultima puntata, e i riscontri positivi che ci auguriamo Vita da Carlo abbia coi suoi estimatori di sempre e di oggi, non lascia troppe speranze di serenità al caledoscopico, ricomponibile, destrutturabile ma sempre inimitabile Verdone.

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