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‘Boris’ ha cambiato l’Italia, ma da allora l’Italia non è cambiata

Rivista su Netflix con le lacrime agli occhi, la serie di culto è uno degli ultimi esempi di Paese pensante che, guardandosi allo specchio, non si metteva a frignare ma aveva ancora il coraggio di sbroccare

La serie Boris è andata in onda per la prima volta su Fox dal 2007 al 2010, passando alla storia per essere stata il più bel prodotto televisivo che abbia mostrato quanto faccia schifo la televisione italiana, meglio ancora della Vita in diretta.

Da una parte Boris aveva interesse a raccontare con comico realismo, in particolare, la società, la cultura e la politica che erano la linfa mortale del sistema televisivo, pubblico e privato, dei primi anni 2000. Dall’altra, fuor di metafora, non avendo niente di meglio da fare, ha raccontato quanto fossero piuttosto nauseabonde anche le altre parti della società, della cultura, della politica italiane, più in generale. Non era mai successo, a memoria di millennial della prima ora, che una forma di spettacolo realistico così poco auto-assolutorio e tanto accusatorio facesse anche ridere e non solo piangere.

Il sospetto che molte delle tesi di Boris siano ancora validissime oggi rende più ghiotta la notizia che, dallo scorso primo maggio, la serie sia di nuovo disponibile integralmente e legalmente su Netflix, per la gioia e — ci auguriamo — l’edificazione dei Generazione Z privi del dono della pirateria o, più probabilmente, della necessaria curiosità culturale.

Al centro della vicenda narrata c’è la vita quotidiana sul set di una fiction di livello artistico infimo, Gli occhi del cuore, ambientata in una clinica privata. Boris non è un meta-film che parla di un prodotto impossibile che non si realizza mai, come L’uomo che uccise Don Chisciotte di Terry Gilliam, ma mette in scena un prodotto possibilissimo che si realizza ogni giorno: una ciofeca.

Grazie ai magistrali copioni firmati da Mattia Torre, Giacomo Ciarrapico e Luca Vendruscolo, quasi tutti i personaggi principali di Boris sono diventati, col tempo, antonomasie dei peccati originali su cui sono posati i pilastri della classe dirigente italiana contemporanea. Un ricco bestiario che va da Stanis La Rochelle (Pietro Sermonti), l’attore incapace a vivere e recitare, narcisista e miracolato di regime; a Corinna Negri (Carolina Crescentini), la “cagna maledetta” che ha il ruolo assicurato grazie alla sua relazione col Dottor Cane, il capo della rete che distribuisce la fiction. Fino ad alcune strepitose figure secondarie, come il venerato Maestro (Roberto Herlitzka) che, dovendo pagare il mutuo, lascia Macbeth a teatro per interpretare Nonno Alberto in tv (“Mi molli un po’ Serpentieri, altrimenti me li fa risultare due cani questi due”); o gli sceneggiatori della fiction, rappresentati come tre Parche mascoline che, schiacciando pulsanti da remoto, operano scelte valide per tutti, tranne che per loro, mentre sono felicemente distaccati dalla realtà.

L’undicesima puntata della prima stagione si intitola Exit strategy. È particolarmente significativo vederla (o rivederla, come si dice, anche alla prima volta, dei classici di ogni genere) mentre, per forza di cose, siamo costretti nell’infausta confortevolezza della nostra clausura digitale. Più di molti altri episodi, Exit strategy sembra parlare dritto al cuore dell’Italia da due mesi in quarantena da Coronavirus e, non sappiamo precisamente da quanti decenni, in isolamento completo dalla sua autocoscienza.

René Ferretti (Francesco Pannofino) è il regista degli Occhi del cuore, cui è giunto rinunciando alle sue velleità di autore. Il suo tormentone: “A cazzo di cane”, nella sua visione della regia televisiva, potrebbe a buon diritto essere pubblicato come integrazione del primo comma del primo articolo della Costituzione.
Quando gira René ha sempre con sé un pesce rosso. I suoi pesci hanno avuto tutti nomi di tennisti, per il modo frenetico ma velleitario con cui fanno avanti e indietro per il piccolo spazio che hanno a disposizione. Per Gli occhi del cuore è di turno Boris, in omaggio a Becker. Boris assiste giorno dopo giorno a tutte le motivazioni che portano immancabilmente al disastro, impassibile e muto. La sua boccia è posta sopra la scatola del monitor, a simboleggiare il punto di vista del regista, che racconta il mondo dal chiuso del suo teatro di posa, mentre il pubblico da casa lo osserva dall’altra parte del vetro (ogni tanto René dà a Boris un colpetto sull’acquario, per accertarsi che si muova ancora).

Ma nella giornata di lavorazione odierna, già resa impegnativa dal fatto che Stanis deve interpretare se stesso e il suo gemello cattivo Erik, René ha deciso di portare a termine, in segreto, un progetto parallelo, di matrice ambientalista e con ben altre ambizioni estetiche. Si intitola La formica rossa ed è il poemetto epico di un piccolo insetto che affronta le tribolazioni della sua esistenza su un tavolo, mentre vi si svolge una pericolosa partita a scopa. Anche se René afferma di girarlo, per giunta in poche ore, solo per ottenere un finanziamento europeo sbloccato da una imprecisata giunta, è evidente che questo corto sia il canto del cigno — a uccello morto — della sua dimensione artistica. Come Gli occhi del cuore è il manifesto poetico del René Ferretti che ha già abbracciato “la merda”, La formica rossa è il testo fondamentale del René a cui la qualità non ha ancora del tutto “rotto il cazzo”.

La formica — dello stesso colore del pesciolino — è l’anti-Boris, mascotte e simbolo del lavoro deteriore. Se Boris è relativamente statico nella sua boccia, la formica è incessantemente mobile. René fa su e giù (come Boris) da un set all’altro, ogni volta raggiante quando può raggiungere la formica-attrice, pronto a studiare nuove tecniche di illuminazione, a selezionare i migliori aiutanti nell’impresa, che sceglie tra gli stagisti più maltrattati, ma in fondo forse riconoscendone, per la prima volta, una sensibilità superiore (e questo è commovente). René sul set degli Occhi del cuore è Boris ma, quando ritorna al suo pet project, sorpreso dal formicolio dell’impegno, dal richiamo sopito della qualità, si trasforma in quel fattivo imenottero rosso.

Da allora sono passati tredici anni e una prima fase di pandemia. Oggi grazie a Netflix una nuova generazione può rivivere la favola del pesce e della formica rossi, e magari scegliere, almeno per il tempo di tre stagioni, di essere la seconda.

Se è vero, come diceva un grande scrittore, che il genere umano dispone nella risata della sola arma veramente efficace, ora disponiamo nuovamente di Boris. Ridere dei propri difetti non è di certo un metodo infallibile per curarli, ma è un ottimo trucco per non ignorarli. Boris, meglio di tanti altri prodotti culturali, ci ha insegnato che, mentre nei sentimenti vince chi fugge, quando si ha che fare con la realtà, non darsela a gambe può essere un’ottima forma — appunto — di strategia d’uscita.

Delle cose che non andavano ai tempi di Boris, almeno nel nostro Paese, quasi tutto è rimasto al suo posto. Molte cose sono perfino peggiorate. In termini di dilettantismo al potere, soprusi di raccomandati, lotte intestine per la visibilità tra lavoratori volontari, questi primi anni Venti non hanno nulla da invidiare al meglio del clou degli anni Zero. Sembra che non abbiamo ancora appreso la lezione che, suo malgrado, ci ha fatto René.

Ma, per fortuna, repetita iuvant. Anche grazie a Netflix Boris resterà a lungo un antidoto potentissimo ad alcuni veleni da cui non sembriamo ancora immunizzati. Una guida all’Italia non for dummies, ma per chi voglia sciogliere quella specie di voto di castità intellettuale che sembriamo aver fatto a santi che non lo erano.
Quante volte abbiamo giustificato le nostre mancanze, sul lavoro o nella vita, perché schiacciati dai difetti a catena di tutti gli altri, come charms Pandora tematizzati sui vizi congeniti del Paese, appesi l’uno accanto all’altro? Chi non ha odiato e maledetto i microprivilegi di cui godevano gli altri (fossero anche soltanto un buon posto in ordine di successione al distributore di merendine) solo fino a che non è arrivato il suo turno di goderne, per poi fare di tutto per mantenere la posizione guadagnata?

Rivisto su Netflix con le lacrime agli occhi — e non solo per aver ritrovato i beniamini di un tempo, ma anche i capi, i colleghi, i mariti, gli amanti e i ministri del senno di poi — Boris è una bomba a orologeria per la nostra accettazione passiva della mediocrità. Non inneggiamo alla qualità, forse sarebbe prematuro, oggi che non esiste più la satira in televisione, oggi che i ruoli comici sono ancora più saldamente in mano ai politici. Ma almeno bisbigliamo al cielo, improvvisamente più blu, di non volerci rassegnare al peggio. Del resto, il più grande merito di Boris è quello di essere stato uno degli ultimi esempi che abbiamo conosciuto, in ordine cronologico, di un’Italia pensante che, guardandosi allo specchio, non si metteva a frignare ma aveva ancora il coraggio di sbroccare.

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