Addio Carrie Mathison: in ‘Homeland’ hai salvato l’America, ma l’America lo meritava? | Rolling Stone Italia
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Addio Carrie Mathison: in ‘Homeland’ hai salvato l’America, ma l’America lo meritava?

Senza l’agente della CIA affetta da disturbo bipolare, che ha causato alla povera Claire Danes un’antipatica ruga in mezzo agli occhi, non ci sarebbe nessuna serie e nessun finale

Addio Carrie Mathison: in ‘Homeland’ hai salvato l’America, ma l’America lo meritava?

Claire Danes è Carrie Mathison in 'Homeland'

Tutte le cose belle prima o poi devono finire, e Homeland non fa certo eccezione. Domenica 26 aprile è andato in onda su Showtime il dodicesimo e ultimo episodio dell’ottava stagione, che sancisce la conclusione della serie tv sviluppata da Howard Gordon e Alex Gansa, basata a sua volta sulla serie israeliana Prisoners of War, creata da Gideon Raff. Dal suo debutto nel 2011, Homeland ha collezionato una bella lista di premi – tra cui Emmy e Golden Globe – e in generale ha messo d’accordo i fan accaniti di quel mix composto in parti uguali da thriller a sfondo politico, spy story e drammoni personali. È arrivato il momento d’ammettere una scomoda verità: sebbene spesso pecchi di snobismo televisivo, non ho mai seguito nulla con più passione, dedizione, zelo e abnegazione per nove lunghissimi anni, senza mostrare alcun cenno di cedimento. Certo, come durante una qualsiasi relazione ci sono stati alti e bassi. Dopo le prime tre stagioni, c’è stato uno sbrodolamento, salvo poi riprendere quota con l’arrivo dei russi – un cliché, sì, ma un cliché che funziona sempre – nella settima e nell’ottava, dai critici (leggi: lo stoico Brian Tallerico su Vulture, che condivide la mia stessa devozione) acclamata come una delle migliori.

Non ci sarebbe Homeland senza Carrie Mathison, l’agente della CIA affetta da disturbo bipolare che ha causato alla povera Claire Danes un’antipatica ruga in mezzo agli occhi, ché Carrie Mathison è perennemente accigliata e le occasioni in cui l’abbiamo vista sorridere si contano sulle dita di una mano. Carrie Mathison ha sventato tanti attentati ai danni degli Stati Uniti almeno quanti sono gli starnuti di una persona allergica al polline nell’arco di una giornata primaverile, secondo un preciso – e collaudatissimo – schema replicabile, più o meno rimasto identico nel corso delle stagioni. S’inizia con impercettibili avvisaglie che dovrebbero far rizzare le antenne a chi si occupa di preservare la sicurezza sul suolo americano, avvisaglie che coinvolgono i cosiddetti Paesi instabili del Medio Oriente tipo Afghanistan, Iran, Iraq, Pakistan, Libano. Il Centro Antiterrorismo della CIA a Langley dispiega i suoi migliori agenti sul campo, seguono indagini approfondite e la potenziale emergenza pare rientrare grazie a un attacco di droni, all’omicidio di un qualche terrorista o all’arresto di un pezzo grosso di Al Qaeda o dell’ISIS. Carrie Mathison è l’unica a capire che si tratta di un abbaglio, il problema vero è ancora lì ed è solo lei a vederlo. Chiunque dà a Carrie Mathison della pazza. Carrie Mathison fa appello al suo patriottismo e si spertica per salvare l’America. Carrie Mathison in fondo aveva ragione. Carrie Mathison riesce a salvare l’America, ma nonostante ciò non le viene riconosciuto il merito, e continua così a vivere una vita abbastanza infelice.

Carrie Mathison è l’individuo più patriottico in cui mi sia capitato d’incappare: più della famiglia, più della figlioletta, più di qualsiasi altro essere vivente (inclusa se stessa), lei ama gli Stati Uniti d’America, un amore che però pare spesso univoco e non ricambiato. «She’s intense», l’ha definita recentemente Claire Danes in un’intervista rilasciata alla CBS. Il che potrebbe suonare come un complimento, se non fosse che la parola intense è il classico “falso amico”: una donna intense è una pesantona, una che prende ogni cosa sul serio, una che non brilla per sense of humor e che non di rado scivola nell’egomania. Insomma: Carrie Mathison, per l’appunto. In nove anni, la nostra beniamina non è cambiata d’una virgola, a partire dal look: tinta monoblocco bionda con accenno di ricrescita alla radice; pantaloni a sigaretta con giacchetta corta e tronchetto tacco medio, un trittico che se non s’è in presenza di gambe da fotomodella risulta mortale; l’immancabile borsello che io dico, ma comprati una borsa decente, m’hai fatto sanguinare gli occhi per novantasei episodi. Alla luce di tali valutazioni, per Carrie Mathison è piuttosto complicato avere una vita sentimentale appagante, anzi, ridimensioniamo: degna di nota. Nicholas Brody: morto (apro e chiudo parentesi: digerire Damian Lewis nei panni di Bobby Axelrod in Billions circa tre anni dopo non è stato semplice). Peter Quinn: morto. Dante Allen: morto. Yevgeny Gromov: nessuno spoiler. Un vecchio adagio recita che, quando Jessica Fletcher va a trovare un amico o decide di farsi una vacanza, qualcuno muore: bene, la stessa regola si applica agli accoppiamenti di Carrie Mathison, che ad essere onesti non cominciano mai sotto una buona stella e, nella maggioranza dei casi, terminano sotto una smitragliata. Lei non è cambiata d’una virgola, si diceva: lungi dall’aver imparato qualcosa dai propri errori, è rimasta indisponente come poche (sì, dai, basta buonismo), convinta d’aver sempre ragione (e il bello è che ce l’ha, ma anche meno), testarda fino al midollo (virtù o difetto che le procura svariati guai), spocchiosa (o forse dovrei scrivere megalomane).

Eppure, malgrado un meccanismo prevedibile e una protagonista che non suscita subito empatia o immedesimazione, la mia pazienza non è stata messa alla prova e ha resistito senza scalfitture sino alla fine. Si possono muovere tante critiche a Homeland, tranne quella di non essere una serie di spionaggio scritta apposta per mantenere altissima la tensione e instillare in noi spettatori da casa il desiderio di scoprire come se la caverà a ’sto giro la protagonista, se sarà in grado d’avere l’happy ending che merita. Arrivati fin qui, la domanda è legittima: com’è il season finale? Mettiamola in questi termini, così da non anticipare nulla: Homeland non poteva concludersi né con un punto, né con un punto esclamativo. Tradotto, gli autori non potevano né risolvere la crisi del Medio Oriente, né essere talmente cinici da far esplodere l’Occidente. Perciò hanno pensato bene di utilizzare i puntini di sospensione e di portare la narrazione al punto di partenza, in modo da non precludersi la possibilità di un eventuale film o miniserie, magari tra una decina d’anni. Non c’avete capito nulla, vero? Meglio, facciamo che ci rivediamo tra dieci anni. Nel frattempo, stay tuned (cit.).

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