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Buon compleanno, Meryl Streep. Non si può certamente ridurre “la più grande attrice vivente” (ormai ci vorrebbe il copyright) in un pugno di fotogrammi. Noi, a nostro rischio e pericolo, ci proviamo. Tra opere di grandi autori, commedie scanzonate (letteralmente) e nomination a pioggia. Questa è Meryl: provate a trovarne un’altra come lei.
Dopo aver lasciato il segno come “supporting” nel Cacciatore di Michael Cimino e in Manhattan di Woody Allen, per il ruolo di spalla (si fa per dire) di Dustin Hoffman in questo family drama strappacuore conquista, a trent’anni, il primo Oscar. È (definitivamente) nata la stella più grande di tutte.
Tre anni dopo, il secondo Academy Award: stavolta da protagonista. Nel melodramma a sfondo nazi by Pakula, è la madre polacca che dovrà compiere l’impossibile scelta del titolo (no spoiler: la Generazione Z forse non lo conosce ancora). Meryl sempre più regina del cinema. E degli accenti stranieri imparati alla perfezione.
Un altro grandissimo del cinema USA alla regia (Sydney Pollack) e uno dei co-protagonisti con cui la nostra ha brillato di più: Robert Redford. Il set stavolta è la savana, sfondo anche della vita vera della scrittrice danese Karen Blixen. Streep ne fa un’eroina romantica umanissima, strappandola dalle pagine dei memoir. E guadagna la sesta (!) nomination agli Oscar della sua carriera.
La queen of drama è anche queen of comedy. L’aveva già dimostrato prima (vedi lo “scult” She-Devil), ma nelle mani di Zemeckis si scatena come mai. La sua Madeline Ashton, attrice “plastificata”, è un personaggio-cartoon che diventa subito un’icona. Meryl dimostra di non prendersi affatto sul serio: anche questa è classe (che solo lei sa sfoggiare).
Altro giro, altro grandissimo: Clint Eastwood. Che le regala uno dei ruoli più intensi della sua filmografia: Francesca, casalinga di origini italiane stregata dall’arrivo, nella sua provincia in cui non accade mai niente, del fotoreporter Robert Kincaid (lo stesso Clint). Ancora una nomination (ma dai), anche grazie a uno dei finali più struggenti della storia del cinema.
Se la commedia è uno dei punti di forza di Streep, questa è LA commedia. In cui, nel ruolo della simil-Anna Wintour qui ribattezzata Miranda Priestly, si scatena, lavorando però di sottrazione: «that’s all» per davvero, le basta pochissimo per costruire uno dei suoi personaggi più riusciti e amati. Altra (meritatissima) candidatura, ma quello fu l’anno di Helen Mirren: ubi The Queen…
Che cosa mancava nel curriculum di Meryl? Un grande musical. Dopo l’ingaggio mancato per Evita, arriva a quasi sessant’anni grazie al musicarello su sfondo greco con le canzoni degli ABBA. La nostra si veste da dancing queen, salta sui letti, e si strugge pure per amore (di Pierce Brosnan), sempre cantando. Da divertissement sciocchino a instant cult: solo lei può.
Si torna in territori più che seri con la parte dell’arcigna suora che cerca di nascondere i crimini di un prete pedofilo (e che prete: Philip Seymour Hoffman, sigh). Il film viene dal teatro, e si vede fin troppo. Ma, come fosse sul palcoscenico, Meryl si prende tutta la scena. Applausi a scena aperta, e pure l’ennesima candidatura agli Oscar: ormai siamo a quota 15, come lei nessuna mai.
A quasi trent’anni di distanza dall’Oscar per La scelta di Sophie, ecco finalmente la terza statuetta. Più che una semplice performance, quella nella messe in piega e nei dentoni di Margaret Thatcher è una mimesi totale: pure troppo, anche per certi fan. Ma l’adesione è così precisa e magistrale che non assegnarle il più importante dei premi sarebbe stato impossibile. Ed è giusto così.
Dopo decenni di onoratissima carriera, finalmente arriva l’incontro tra Streep e un altro mostro del cinema americano: Steven Spielberg. Che le offre una parte di accoratissimo afflato civile, anche se – almeno all’apparenza – la sua editrice del Washington Post Katharine Graham è un’altra bitch conservatrice. Accanto a un altrettanto gigantesco Tom Hanks, Meryl guadagna la sua ultima nomination all’Oscar. Per ora.
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