‘Hamnet – Nel nome del figlio’: la recensione del film di Chloé Zhao con Jessie Buckley e Paul Mescal | Rolling Stone Italia
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Il film più struggente dell’anno è (quasi) qui, e si chiama ‘Hamnet’

La backstory dell’‘Amleto’ di Shakespeare, diretta da Chloé Zhao e con protagonisti Paul Mescal e Jessie Buckley, arriva alla Festa di Roma. Ma per vederla al cinema dovremo aspettare fino a febbraio 2026

(da USA) Hamnet

Jessie Buckley e Paul Mescal in ‘Hamnet – Nel nome del figlio’ di Chloé Zhao

Foto: Agata Grzybowska/Focus Feature

Lei è una donna che si sente pienamente a casa nel mondo naturale, capace di raggomitolarsi sul suolo di una foresta nella campagna inglese e dotata di un talento innato per la falconeria. Lui è un giovane tutore di latino, poco più che adolescente, che lotta per ripagare i debiti del padre. Si incontrano fuori da un giardino vicino alla scuola dove lui insegna: il ragazzo scappa nel mezzo di una lezione pur di raggiungerla. La scintilla tra i due è immediata, incendiaria. Si sposeranno, avranno dei figli, e vivranno la peggior tragedia che un genitore possa immaginare. Dal loro dolore nascerà un’opera d’arte che rimane, ancora oggi, un punto di riferimento assoluto. Il suo nome è Anne, anche se tutti la chiamano Agnes. Il suo è William, e presto sarà considerato il più grande drammaturgo della lingua inglese.

Signore e signori, ecco gli Shakespeare. Nel romanzo Nel nome del figlio – Hamnet del 2020, Maggie O’Farrell immagina la relazione tra il Bardo e sua moglie come una storia intima di desiderio, compromesso, gioia, risentimento, sostegno e dolore. In altre parole: un matrimonio. Il libro si concentra anche su uno degli eventi che più segnarono le loro vite, la morte del figlio undicenne Hamnet, e su come quella perdita incolmabile spinga William a scrivere la storia di un principe malinconico in crisi esistenziale. L’opera porta il nome del ragazzo – Hamnet e Hamlet erano praticamente sinonimi – e consacra l’eredità di Shakespeare. O’Farrell immagina una fiction speculativa che, pur reinventando, radica la storia di questa celebre coppia nel reale travaglio d’amore e nel peso del lutto. Persino l’uomo che ha scritto immortali monologhi romantici, capaci di attraversare i secoli, riusciva comunque a far infuriare sua moglie con impressionante regolarità.

È quasi impossibile immaginare un adattamento per lo schermo capace di restituire la stessa intensità di dolore e catarsi descritta con tanta potenza sulla pagina, anche con O’Farrell stessa coinvolta come co-sceneggiatrice. E invece l’interpretazione rigorosa, commovente e, a suo modo, trascendente della regista Chloé Zhao – un racconto su come incanalare la sofferenza nel proprio lavoro e trovare la forza di andare avanti – è all’altezza del romanzo. Con la performance di Jessie Buckley nei panni di Agnes, probabilmente la migliore della sua carriera, si potrebbe persino sostenere che il film riesca a superare il materiale d’origine.

Dopo aver attraversato i festival di Telluride e Toronto (il film in Italia è stato presentato alla Festa del Cinema di Roma e sarà nelle sale il prossimo 5 febbraio, ndt), Hamnet – Nel nome del figlio di Chloé Zhao è destinato a essere una delle esperienze più devastanti che vedrete in questa stagione, se non addirittura la più straziante approdata in sala negli ultimi dodici mesi. Eppure, è anche un racconto che, pur affrontando la morte, esplode di vita, rinnovamento, rinascita. La scomparsa del giovane Hamnet è stata, un tempo, il seme da cui nacque un capolavoro. Ora lo ha fatto di nuovo.

Hamnet - Nel nome del figlio | Trailer Ufficiale (Universal Pictures) - HD

In qualità di sceneggiatrice e regista, l’autrice premio Oscar Chloé Zhao ha sempre avuto un istinto acuto per gli spazi, i territori e il modo in cui le persone si muovono dentro i loro ambienti, che si tratti delle riserve del South Dakota (Songs My Brother Taught Me, The Rider) o delle strade secondarie e delle aree di sosta d’America (Nomadland). Agnes viene introdotta come una creatura della terra, quasi fusa con il fogliame che la circonda; più avanti, darà alla luce la loro primogenita ai piedi di un albero, lontana da stanze claustrofobiche e da una folla di corpi. Non la definiresti “selvaggia”, ma è davvero una Madre Natura in carne e ossa. Will, invece – interpretato con una sensibilità tagliente da Paul Mescal, che sfrutta al massimo il suo carisma malinconico e la sua presenza fisica – è uno che si sente più a casa alla scrivania, con solo una candela a illuminarlo lungo il pericoloso processo creativo. Questo Shakespeare è cupo, irascibile, a tratti egocentrico, incline a bere troppo e a crogiolarsi nell’autocommiserazione. Il termine comune per anime perennemente tormentate come la sua è “scrittore”.

Will lotta contro la sua famiglia, in particolare contro un padre ingrato (David Wilmot) e una madre inflessibile (la sempre impeccabile Emily Watson). Anche Agnes desidera liberarsi dalla propria condizione, nonostante l’attaccamento al fratello Bartholomew (Joe Alwyn). Quando rimane incinta, i due sfidano la volontà delle rispettive famiglie diffidenti e si sposano. Nasce una figlia. Con il tempo – nonostante i lunghi soggiorni di Shakespeare a Londra per costruirsi una carriera, the play’s the thing! – la coppia riesce a concepire di nuovo. Questa volta Agnes dà alla luce due gemelli. Il primo è un maschio, di nome Hamnet. La seconda è una femmina, di nome Judith. Sembra nata morta. Agnes, quasi con la pura forza di volontà, la richiama alla vita. Pare che l’amore di una madre possa davvero tenere a bada la morte. Si rivelerà un’illusione.

I bambini crescono, con la primogenita Susanna (Bodhi Rae Breathnach) che aiuta ad accudire i suoi turbolenti fratelli. Sia Hamnet (Jacobi Jupe) che Judith (Olivia Lynes) sono fantasiosi, giocosi, dispettosi. E sono inseparabili: si divertono a scambiarsi i vestiti e a finire le frasi l’uno dell’altra. La famiglia è unita, nonostante le lunghe assenze del padre. E la promessa di trasferirli nella “casa più grande di Stratford” lascia intendere che l’Eden sia dietro l’angolo. Poi la peste raggiunge la loro abitazione. Judith è la vittima del morbo, Agnes le resta accanto, mentre il padre è assente. È però Hamnet a prendere le armi “contro un mare di affanni”. Disteso accanto alla sorella, le sussurra che inganneranno la morte, costringendola a scegliere il bambino sbagliato. “Sarò coraggioso”, ripete Hamnet. Il suo piano funziona fin troppo bene.

Ciò che accade dopo fa parte della biografia di Shakespeare, anche se le co-sceneggiatrici O’Donnell e Zhao aggiungono alcuni dettagli su come gli eventi siano realmente avvenuti. Il risultato è comunque devastante, per i personaggi e per il pubblico. Si parlerà molto di Jacobi Jupe, che dona una profondità al suo giovane martire come raramente si vede nei piccoli attori. Lo stesso vale per Mescal, che ha già trasformato il suo talento nell’interpretare uomini dalla fisicità possente e dall’indole malinconica in exploit da protagonista assoluto. Nei panni del fantasma del padre di Amleto, durante la prima dell’opera – il volto e il corpo ricoperti di un ceruleo trucco gessoso – il suo Shakespeare attraversa lo specchio e diventa egli stesso un personaggio tragico, che “si agita e si pavoneggia” durante la sua ora sul palco. Anche il resto del cast restituisce l’idea di persone schiacciate dal peso degli eventi. Eppure, questo film appartiene a una sola persona, e una soltanto.

Sebbene di Hamnet si parlerà per mesi – e il brusio probabilmente crescerà d’intensità man mano che quel certo appuntamento di marzo nel Sud della California si avvicina – della performance di Jessie Buckley si discuterà per anni. È il genere di prova attoriale che fonde insieme sfumature ed espressionismo puro, momenti di quiete e urla da togliere il respiro. L’ululato di dolore che lascia esplodere quando riconosce ciò che è accaduto è devastante. L’affetto che Agnes nutre per i suoi figli e la rabbia che rivolge al marito, per non parlare di un mondo abbastanza crudele da strapparle un bambino, sono calibrati con una precisione tale da mandare in frantumi anche il cuore più saldo. Quando scopre che il suo taciturno marito ha scritto un’opera che sfrutta il nome del loro bambino invano, entra al Globe Theatre in uno stato di incredula sospensione. Poi osserva il dramma prendere forma – attraverso un Amleto che ricorda una versione adulta del suo Hamnet – e Buckley riesce in qualche modo a far vedere una luce che si riaccende dentro di lei. L’attrice irlandese ha interpretato decine di personaggi spezzati, eccentrici, audaci o perfino bizzarri negli ultimi dieci anni, eppure ciò che compie qui è qualcosa di mai visto. Riscrive le aspettative su come si possa interpretare qualcuno che ritrova la propria anima.

Cerchi di assorbire tutto, tentando di rialzarti da terra dopo aver assistito a tanto dolore e tanta grazia. E poi Zhao ti concede un momento di catarsi collettiva, mentre il pubblico dell’opera risponde a un climax violento con empatia e amore. L’elevazione emotiva di quella sequenza è travolgente. Hamnet riesce a rendere le parole “buona notte, dolce principe” ancora più lancinanti del solito, e tuttavia ti lascia in uno stato di estatico abbandono emotivo. La morte è inevitabile, ci dice il film, ma l’arte può aiutarci a dare un senso all’assurdo: l’idea che siamo qui un secondo, e svaniti quello dopo. È un modo per comunicare verità universali e legami condivisi, per colmare lo spazio tra noi e gli altri. Il resto è silenzio.

Da Rolling Stone US