Non c’è bisogno di mostri per fare un film dell’orrore: basta uno specchio. The Ugly Stepsister è il racconto di una condanna quotidiana, quella di vivere in un corpo che appartiene più allo sguardo degli altri che alla propria volontà. Emilie Blichfeldt firma un horror esistenziale travestito da fiaba, dove la paura non nasce da ciò che si vede, ma da ciò che si è costrette a vedere. Elvira – la sorellastra “sbagliata” di questa Cenerentola capovolta – si guarda allo specchio e ciò che riflette non è un volto, ma un inventario di difetti, una lista infinita di correzioni da compiere. Da quel momento in poi, il corpo non è più solo carne: è ostacolo, materia nemica. E la discesa agli inferi non è più una metafora.
Blichfeldt riscrive la fiaba più raccontata della cultura occidentale scegliendo il punto di vista che nessuno aveva mai voluto ascoltare. E lo fa con una violenza formale che è anche dichiarazione poetica: il martello che spacca il naso, le pinze che strappano i denti, il parassita ingoiato come fosse salvezza. Ogni inquadratura è uno schiaffo all’estetica edulcorata con cui siamo abituati a parlare di bellezza femminile. Qui non ci sono primi piani romantici: c’è solo l’ossessione del corpo come progetto incompiuto, come materia da piegare fino alla rottura.
La madre di Elvira – interpretata con glaciale determinazione da Ane Dahl Torp – incarna quella particolare forma di violenza che si trasmette in discendenza sotto forma di premura. Non tortura la figlia: la aiuta. Le insegna che il corpo è merce, che la sopravvivenza economica passa attraverso il matrimonio, che il matrimonio richiede conformità, non solo estetica. È l’ingranaggio perfetto di un sistema che si riproduce attraverso l’amore, rendendosi così inattaccabile.
Nessuno costringe Elvira. È questo il punto più feroce del film. Elvira sceglie, sceglie sempre. Sceglie il dolore, sceglie la mutilazione, sceglie di diventare qualcun’altra. Ma Blichfeldt smonta pezzo per pezzo la retorica dell’autodeterminazione: in una società che ti ha insegnato sin dalla nascita che il tuo valore coincide con la tua appetibilità sul mercato matrimoniale, cosa significa davvero scegliere? La famiglia è sull’orlo del collasso finanziario, il principe cerca moglie, Agnes – la sorellastra “giusta” – esiste come standard vivente di perfezione irraggiungibile. In questa geometria spietata, le scelte di Elvira non sono libere: sono l’unica risposta possibile a un’equazione truccata.
Il parassita che Elvira ingoia porta con sé quella promessa illusoria di controllo su un corpo che le è sempre sfuggito. Questa scelta disperata, sotto lo sguardo di Blichfeldt, si rivela per quello che è: autodistruzione programmata. La creatura che si nutre di Elvira dall’interno diventa specchio oscuro dell’immagine ideale che la ossessiona – entrambe la consumano, entrambe prosperano sulla sua negazione. È il trionfo del letterale sul metaforico: dove altri film suggerirebbero, Blichfeldt mostra, visceralmente, cosa significa abitare un corpo che hai imparato a considerare nemico.
Agnes, la Cenerentola di questa storia, non ha bisogno di essere cattiva. La sua crudeltà è ontologica, non morale: esiste, ed esistendo innesca il confronto. Thea Sofie Loch Næss la interpreta con una leggerezza che è anche condanna – come tutte le belle senza sforzo, e proprio per questo insopportabili. Non serve che faccia nulla: ogni sua apparizione rimodella lo spazio intorno a lei, riducendo Elvira a margine, a corpo estraneo.
Il dialogo con The Substance di Coralie Fargeat è evidente, ma Blichfeldt innesta una variabile che sposta il film altrove, dove serve: la classe sociale. Elvira non vuole essere bella per una qualche forma di narcisismo generazionale o paura dell’invecchiamento. Ha disperatamente bisogno di essere bella per non morire di fame. Il principe non è fantasia romantica, ma unica via d’uscita dalla miseria. E questo radica il film in una dimensione materiale che The Substance ignorava: l’ossessione estetica è sempre stata, innanzitutto, una questione economica.
I film sull’accettazione del corpo promettono sempre la stessa catarsi. Qualcuno dice le parole giuste, la protagonista capisce che “la vera bellezza viene da dentro”, tutto si risolve. The Ugly Stepsister sputa su questa narrativa con ferocia. Non ci sarà redenzione, non ci sarà momento di consapevolezza liberatoria. Perché Blichfeldt sa – come lo sappiamo tutte – che la bellezza interiore è il premio di consolazione che la cultura offre a chi non può permettersi quella esteriore. È la bugia pietosa che raccontiamo per non dover guardare in faccia la realtà, è cioè che la bellezza è privilegio, è capitale, è potere.
Lea Myren, al suo debutto sullo schermo, offre una performance di rara intensità. Il suo volto registra ogni micro-trasformazione, ogni pezzo di sé che va perduto. Myren recita come chi documenta, frame per frame, una scomparsa. Guardi i suoi occhi e la vedi annegare, nello sforzo di nuotare verso il fondo perché qualcuno le ha detto che lì troverà finalmente ossigeno. Il dolore già speso giustifica il dolore futuro; fermarsi significherebbe ammettere che è stato inutile e quindi continua, anche quando non rimane più nulla da sacrificare.
Il body horror di Blichfeldt non è mai gratuito. Ogni scena di violenza fisica è calibrata per fare una cosa precisa: rendere impossibile la rimozione. Non puoi guardare altrove, non puoi razionalizzare, non puoi dire “è solo un film”. Devi vedere il sangue, sentire il rumore delle ossa, assistere alla mutilazione un centimetro di carne alla volta. Perché solo così, forse, puoi cominciare a vedere anche la violenza quotidiana che normalizziamo: le diete punitive, i trattamenti invasivi, la chirurgia estetica presentata come scelta libera.
Il film si colloca nella genealogia del body horror femminista – In My Skin, Dumplings, Titane, Raw, lo stesso The Substance – ma con una differenza cruciale: mentre quei film indagano cosa il corpo può diventare, The Ugly Stepsister mostra cosa il corpo deve smettere di essere. Elvira non si trasforma in qualcos’altro: semplicemente cessa di essere se stessa. E questo è forse l’orrore più profondo che il cinema possa rappresentare.
Blichfeldt dimostra una maturità formale rara per un’opera prima. La sua regia lavora per sottrazione: camera quasi sempre fissa, movimenti minimi, primi piani prolungati che durano oltre il limite del comfort. Non stacca mai per pietà, costringendoci a restare presenti davanti al dolore. È un cinema della durata che rifiuta le facilitazioni del montaggio ellittico. La fotografia oscilla tra i toni caldi degli interni domestici – che richiamano la pittura fiamminga – e le esplosioni di rosso viscerale durante le mutilazioni. Il contrasto visivo dice tutto: la superficie rassicurante della vita quotidiana contro la violenza che sgomita sotto.

Lea Myren in una scena del film. Foto: I Wonder Pictures
Il montaggio lavora su tempi dilatati. Dove altri accelererebbero verso il jump scare, qui si rallenta, si osserva. Le scene di body horror durano secondi in più del sopportabile – non per sadismo, ma per impedirci la fuga. Sul piano sonoro, il design amplifica i rumori corporei trasformando il corpo in paesaggio acustico, mentre lunghi silenzi vengono interrotti da improvvise esplosioni orchestrali.
La forza di un film come questo sta nella sua capacità di toglierti ogni appiglio consolatorio. Non puoi rifugiarti nell’idea che sia ambientato in un passato fiabesco e quindi innocuo: la violenza che mostra è la stessa che attraversa ogni epoca. Non puoi dire che Elvira è stupida o vittima, perché la sua tragica lucidità è presente, sempre. Per Elvira – e forse per noi tutte – la bellezza è un debito. E pagarlo fino all’osso sembra l’unico gesto razionale possibile.
Blichfeldt nega anche l’ultimo rifugio: quello dell’auto-accettazione come soluzione individuale. Perché se la ferita è sistemica, nessuna guarigione può essere privata. Elvira non può imparare ad amarsi: il sistema in cui vive non glielo permette. E il film ha il coraggio di non offrire anestesia, di restare fedele fino in fondo alla sua premessa brutale.
E quando i titoli di coda scorrono, resti per qualche secondo di troppo a chiederti: quante volte hai guardato il tuo corpo come se fosse un problema da risolvere? Quante Elvire conosci? E, soprattutto: quante volte sei stata tu, quell’Elvira?








