‘Rapiniamo il Duce’: 5 motivi per cui sì, il pop d’autore si può fare. Anche da noi | Rolling Stone Italia
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‘Rapiniamo il Duce’: 5 motivi per cui sì, il pop d’autore si può fare. Anche da noi

Una semplice ‘operazione commerciale’? Ce ne fossero. Con un occhio alla commedia all’italiana e l’altro a Tarantino, Renato De Maria piazza i bravissimi Pietro Castellitto e Matilda De Angelis (e molti altri) in una farsa quasi-storica da cui il nostro cinema d’intrattenimento (ma intelligente) dovrebbe imparare

‘Rapiniamo il Duce’: 5 motivi per cui sì, il pop d’autore si può fare. Anche da noi

Da sinistra: Tommaso Ragno. Maccio Capatonda, Matilda De Angelis, Pietro Castellitto, Alberto Astorri, Coco Rebecca Edogamhe e Luigi Fedele in ‘Rapiniamo il Duce’ di Renato De Maria

Foto: Sara Petraglia/Netflix

La Storia siamo noi

Rapiniamo il Duce (dal 26 ottobre su Netflix) è Bastardi senza gloria? No. È stupido che certa critica s’indigni per questo motivo? Sì. L’ispirazione può pure essere, molto alla lontana, tarantiniana: il cartello all’inizio del film dice del resto che anche questa è una storia (no: una Storia) un po’ vera e molto no. Ma Renato De Maria, che del film è regista e sceneggiatore (con Federico Gnesini e Valentina Strada), fa un’operazione orgogliosamente all’italiana, che mira più alla nostra gloriosa (quella sì) commedia che alla pulp fiction altrui. Isola (Pietro Castellitto), ladruncolo ammanicato con la Borsa nera nella Milano (quasi) liberata dai fascisti, scopre che il famigerato oro di Mussolini esiste davvero, e che sta per essere trafugato in Svizzera prima del crollo del regime. Metterà su una banda di improbabili complici per sgraffignarlo. Niente di più, niente di meno. «Volevo fare un heist movie, e poi mi è venuto in mente di agganciarlo alla Storia», confessa De Maria. Bastava poco, bastava un’idea. E qui c’è eccome.

Bastardi, con gloria

Isabella Ferrari nei panni della diva Nora Cavalieri e Filippo Timi alias il gerarca Borsalino. Foto: Sara Petraglia/Netflix

Se Pietro Castellitto strizza l’occhio ai “colonnelli” della nostra commedia, non sono da meno gli altri protagonisti e comprimari. Matilde De Angelis è strepitosa nei panni dell’amante (e cantante) Yvonne; amante sua, ma anche del gerarca fascista Borsalino (l’altrettanto a suo agio Filippo Timi). E poi, nella banda, sguazzano il sempre adorato Tommaso Ragno, il ben utilizzato Alberto Astorri, lo scatenato Maccio Capatonda (alias un ex pilota delle Mille Miglia fregato dalla tròca), il nuovo volto Luigi Fedele e Coco Rebecca Edogamhe, che dopo Summertime cresce sempre di più. E poi c’è una sontuosa Isabella Ferrari, diva sfiorita tra la Norma Desmond di Viale del tramonto (si chiama Nora, guarda caso) e Crudelia De Mon, e Maurizio Lombardi, regista à la Blasetti. Tutti sgangherati o bastardi, con gloria.

Dalla parte del pubblico

Pietro Castellitto/Isola e Matilda De Angelis/Yvonne. Foto: Sara Petraglia/Netflix

Qualcuno alla Festa del Cinema di Roma, dove Rapiniamo il Duce è stato presentato, l’ha liquidato come “operazione commerciale”. Come se il cinema non lo fosse in generale, e da sempre: ma vabbè, qui si aprirebbe un capitolo troppo ampio. Renato De Maria è un autore che ama sperimentare (vedi Paz! e La vita oscena), ma che non ha mai snobbato il grande pubblico (leggi, su tutto e tutti: Distretto di polizia). E confeziona stavolta un film di intrattenimento puro, veloce (98 minuti: GRAZIE), in cui sembra il primo a divertirsi. E scritto con penna facile ma briosa. Rispetto ad altre produzioni italiane Netflix costruite a tavolino, questa ha insieme il senso dello spettacolo (e dell’algoritmo) e quello della libertà d’autore. Avercene, in ogni caso.

I soldi ci sono (e si vedono)

Tommaso Ragno in una scena del film. Foto: Sara Petraglia/Netflix

Ricordate quello sketch del Saturday Night Live in cui una ragazza qualsiasi si presentava gli uffici di Netflix per proporre un pitch e, prima ancora che cominciasse a raccontarlo, i produttori già le lanciavano mucchi di dollari? Ecco, i soldi ci sono. Anche qui. La confezione è extralusso, ma i finanziamenti sono usati bene (non crediate che certe commediacce nostrane costino tanto meno), dalle scene (di Giada Calabria) ai costumi (Andrea Cavalletto), fino alla sequenza action finale benissimo fotografata (Gian Filippo Corticelli) e montata (Clelio Benevento). Quasi un Freaks Out da divano, e non è un’offesa: vuol dire che un altro cinema – d’azione, di genere, di (ripetiamo) intrattenimento puro – si può fare. Persino in Italia.

Paint it… nero

Matilda De Angelis versione chanteuse. Foto: Sara Petraglia/Netflix

Se bruciasse la città, grida Massimo Ranieri nella sequenza d’apertura. Classicone per un film che un po’ classico lo vuole essere, ma with a twist. I pezzi forti sono in mano a Matilda, eccellente pure come chanteuse (ma lo sapevamo). Sia nella “cover della cover” Tutto nero, passata dai Rolling Stones a Caterina Caselli fino a lei, sia in una Amandoti dei CCCP cantata con voce rochissima/sensualissima. Che fa venire i brividi, brividi, brividiiiii.