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Pippo Baudo, alfa e omega della televisione italiana

“Pippo nazionale” non è stato solo il nostro presentatore più famoso: era la struttura portante del sistema televisivo, con lui se ne va l’ultimo grande conduttore. Il nostro ricordo

Foto: Marco Piraccini/Archivio Marco Piraccini/Mondadori Portfolio via Getty Images

Nella storia della scultura sacra qualche volta è capitato che un artista, chiamato a realizzare la statua di un santo, finisse per ritrovarsi, a lavoro ultimato, con un simulacro troppo alto per la cappella che avrebbe dovuto contenerlo. Allora l’architettura si piegava alla santità: si rifaceva il tetto, si abbassava il pavimento. Nessuno osava dire al marmo consacrato: “Fatti più piccolo”. Al massimo si rifaceva la pianta della basilica. Pippo Baudo, non solo per il suo metro e novantuno di lunghezza, è stato una di quelle statue. Il Cristo Pantocratore della televisione italiana, scalpellato in scala maggiore, che ha costretto la tv italiana a ristrutturarsi intorno a lui.

Baudo non è stato solo il nostro presentatore più famoso: era la struttura portante del sistema televisivo. L’epiteto che gli cucirono addosso – “Pippo nazionale” – non era solo un atto di devozione popolare: era una riforma costituzionale.

Fare un ritratto di Pippo è dunque complesso, se non altro perché coincide con il profilo intero di una nazione. Ti avvicineresti forse di un po’ alla verità se provassi a rendere tutto il Paese in un altorilievo, come in quei monumenti dove il volto del condottiero si confonde con la montagna. E infatti Baudo era un monte, non una star. Un rilievo, una morfologia.

(Oggi, per inverso, viviamo l’era dei santini mediatici. Miniature ergonomiche, portatili. I nuovi personaggi di quel che resta della televisione entrano comodamente nello spazio dello schermo di uno smartphone, e soprattutto nel tempo di attenzione che possiamo dedicare loro. Non costringerebbero nessuno a rifare un’abside. Si adattano. Si ritagliano. Male che vada, a rimpicciolirsi è il nostro cervello).

Giuseppe Raimondo Vittorio Baudo detto Pippo nacque il 7 giugno 1936 a Militello in Val di Catania. Figlio di un avvocato e di una casalinga, anello di congiunzione tra estro creativo e aspirazione borghese. Si laureò in Giurisprudenza a Catania nel 1960, ma intanto frequentò l’ambiente teatrale universitario, suonò il pianoforte e coltivò un’ossessione per la dizione. La RAI lo intercettò come autore e pianista, e nel 1959 lo portò in video nel programma musicale Primo piano, in onda dalla sede di Palermo.

Ma il vero debutto da conduttore arriva nel 1966 con Settevoci, varietà domenicale dove le esibizioni canore di esordienti si alternano a quiz. Significativamente, in quell’occasione, con Pippo debutta anche l’applausometro, fantomatico misuratore dell’intensità del battito delle mani del pubblico in studio. È così che Baudo inventa il suo stile: controllato ma vivace, preciso ma partecipativo. È a Settevoci che si capisce che Pippo non è un conduttore: è un fenomeno gravitazionale. Gli artisti gli ruotano intorno, le telecamere lo inseguono, i microfoni si direzionano da soli quando parla. E Baudo capisce che può – anzi, deve – “creare”. Non solo presentare ma produrre realtà. Così, fin da allora, diventa anche talent scout. Non uno che “nota” i talenti: uno che li nomina, li genera. E che generazione: Al Bano, Franco Battiato, Giuni Russo, Massimo Ranieri, Orietta Berti. Baudo è il ponte tra l’intenzione e la manifestazione. Il talento, nella televisione di Baudo, viene annunciato come una rivelazione.

Nel giro di pochi anni, il suo nome si lega in modo permanente al concetto stesso di varietà. Conduce Canzonissima, Fantastico, Domenica In, Serata d’onore, Novecento. Ma è con il Festival di Sanremo che la sua figura assume finalmente le proporzioni colossali che si merita. Baudo conduce il Festival per 13 edizioni, dal 1968 al 2008, definendo un’epoca, anzi: una sequenza di epoche, ciascuna delle quali ruota simbolicamente attorno alla sua presenza. Quarant’anni di Ariston, in cui ha visto passare davanti a sé cantautori in lacrime, rapper imbarazzati, vallette mute, standing ovation a comando, fischi veri e fischi teleguidati, Nilla Pizzi e Vasco Rossi, Mia Martini e Gigi D’Alessio. Ha detto “grazie” e “buonasera”, probabilmente, più volte di chiunque altro nella storia dell’umanità. Sanremo, con lui, non era una gara canora ma un atto fondativo, come se l’Italia avesse bisogno di sentirsi spiegare cos’era l’Italia, la musica cosa fosse la musica, e fosse giusto che a farlo fosse Pippo, con la magnifica noncuranza con cui anche un rettore di ateneo, di tanto in tanto, tiene lezione a delle semplici matricole.

Nel 1984, durante la prima delle sue nove conduzioni consecutive del Festival, impone sul palco la giovane Lorella Cuccarini, che diventerà la showgirl simbolo degli anni Ottanta. Due anni dopo sceglie Anna Oxa per aprire la serata d’esordio: capelli sparati, trucco androgino, abito futuribile. Un’immagine che scandalizza i benpensanti, ma che impone un’estetica nuova.

Ogni civiltà ha un conduttore-sciamano, che incarna il potere di unire il tempo e lo spazio. Baudo lo faceva con quella voce che scendeva nei registri bassi quando c’era da solennizzare, che saliva come un violino se c’era da sorridere, che diventava cortese ma perentoria nei momenti di caos.

Il 14 febbraio 1995 Pippo impedisce il presunto suicidio in diretta di un gentile signore che minacciava di gettarsi da una galleria dell’Ariston. In quel momento, Baudo passa momentaneamente dalla reference Gesù a vigile del fuoco: mette in sicurezza lo spettatore, lo abbraccia, lo consola. Poi, rientrato in scena, pur non essendone mai uscito, torna cristologico: «Abbiamo salvato un uomo». Baudo non indietreggiò, non chiese lo stacco pubblicitario, non fece un passo di lato, lo fronteggiò, lo disarmò delle sue intenzioni, lo consegnò alla sicurezza come se fosse la cosa più naturale del mondo, come se non potesse accadere nulla di irreparabile finché lui teneva in mano il microfono.

Negli anni Pippo impiegherà i suoi poteri sovrumani anche per scontrarsi e vincere con dirigenti, partiti, poteri. Va via dalla Rai, ma poi viene richiamato sempre, giacché la sua Chiesa può anche essere sì gestita collegialmente, ma quando la processione si blocca, occorre la fluidificazione che solo il suo olio santo sapeva garantire.

Baudo ha sempre avuto una visione morale della televisione. Non moralista: morale. Sapeva che in video si esercita un potere, e quindi ci voleva una responsabilità. Per questo i suoi programmi – anche i più frivoli – non erano mai del tutto scemi. Non c’era trash. C’era semmai l’azzardo, l’imprevisto, perfino l’eccesso, ma sempre dentro una regia che sapeva tenere insieme un’idea precisa di servizio pubblico, non nel senso stretto dell’ente ma in quello largo della funzione. La televisione, nella sua visione è un luogo di auto-narrazione collettiva, piena di contraddizioni ma orchestrata con rigore. In lui, il mestiere della conduzione diventa una forma di mediazione teologica: coniugare il sacro della rappresentazione con il profano dello share.

Il paragone con Mike Bongiorno è inevitabile quanto chiarificatore. Mike rappresentava il meccanicismo dei quiz, la ripetizione, la regola puntualmente smentita dalla gaffe. Baudo era la variazione gattopardesca sul tema, l’improvvisazione controllata sempre garantita dal rigore. Mike era la risposta pronta. Baudo era la domanda giusta. Mike era l’America della TV: efficiente, standardizzata, incoraggiante. Baudo era la Magna Grecia: sfaccettato, umanista, capace di accogliere la gloria e il fallimento. Se Mike conduceva con il sorriso da venditore, Baudo aveva il passo del direttore d’orchestra. Ascoltava, calibrava, correggeva. Non interrompeva mai a caso. Sapeva quando entrare in scena e, soprattutto, quando uscirne. Le sue pause, come quelle dei grandi attori tragici, erano dispositivi retorici: creavano gravità. Facevano suonare di più le parole che venivano dopo.

Con lui se ne va l’ultimo conduttore alpha, l’ultima figura paterna di un Paese che da tempo non ne vuole più, sostituita da conduttori amichevoli, influencer di quartiere, moderatori che cercano like invece di imporre ritmo, e resta il vuoto che solo ora riconosciamo: il vuoto di una voce che non chiedeva consenso ma lo incarnava, che non si specchiava nel pubblico ma lo disciplinava, che non era mai un compagno ma sempre un padre, un padre televisivo, un padre simbolico, un padre anche politico che riusciva a farci sentire di nuovo popolo.

L’unicità di Pippo Baudo si misura nel modo in cui è riuscito a incarnare simultaneamente il centro e la periferia del racconto nazionale, fondendo il margine con l’asse portante. In lui convivevano il palcoscenico e la quinta, il direttore e il figurante, la ribalta e il retroscena. A differenza dei conduttori-specialisti – esperti di quiz, di interviste, di show serali – Baudo non si definiva per il tipo di programma che conduceva, ma per la totalità del sistema televisivo in cui operava. Era un organismo onnivoro e trasversale, capace di metabolizzare musica leggera, informazione, comicità, pubblicità, memoria storica, cultura popolare e alta borghesia, senza mai cambiare timbro. È stato l’unico capace di tenere insieme ciò che nel mondo reale non dialogava: nord e sud, spettacolo e istituzione, primo piano e inquadratura larga. Come certi sindaci leggendari di provincia, sapeva tutto di tutti, ricordava cognomi, proteggeva i debuttanti e ammoniva i presuntuosi. La sua forza stava nella capacità di trasformare ogni diretta in una geografia emotiva, dove ciascuno – anche da casa – sapeva esattamente dove collocarsi.

Nessuno, tra i suoi colleghi, ha occupato lo stesso spazio simbolico di Pippo Baudo. Corrado possedeva l’eleganza sobria del cerimoniere, ma si teneva sempre un passo indietro rispetto all’evento, come un arbitro ben allenato che impiega, per evitare il contatto con la palla, quasi altrettante energia di quanta ne mettano i giocatori nel calciarla. Raimondo Vianello brillava per intelligenza sarcastica, ma non aveva il corpo centrale del sistema: era la battuta, non il rito. Enzo Tortora fu l’unico a portare in tv un’idea laica e civile di parola, ma la sua traiettoria fu tragicamente spezzata prima di diventare struttura. Raffaella Carrà, che pure inventò un lessico televisivo autonomo e potentissimo, fu una diva, non una regista istituzionale. Maurizio Costanzo portò l’Italia sul divano ma sempre a orari notturni, da piccolo club di pensiero laterale. E tra i più recenti, neanche un Fabio Fazio – con la sua grazia gentile e la sua imperturbabile coerenza – ha mai saputo occupare davvero la plancia di comando. Baudo invece stava al centro della nave, con le mani sul timone e il Paese intero sottocoperta. Era il conduttore in quanto responsabile della forma, un ruolo che nessun altro ha più voluto – o potuto – sostenere.

Per almeno trent’anni, inoltre, imitare Pippo Baudo è stato il banco di prova obbligato per ogni comico che ambisse a produrre satira sulla televisione italiana. Non era solo una questione di voce nasale, di sopracciglia mobili, di raffiche di “L’ho inventato io” pronunciate con più o meno mimetismo: era un’esercitazione sul potere. Impossibile contare quanti sketch, parodie, monologhi abbiano ruotato attorno alla sua figura, fino a Corrado Guzzanti che, in Pippo Chennedy Show, gli dedicò di fatto un intero programma, trasformandolo in un oracolo messianico che intratteneva gli ospiti aspergendoli con il suo delirio di onnipotenza. Baudo non era semplicemente famoso, era il simulacro per eccellenza: chiunque volesse prendere in giro il sistema, doveva prima passare attraverso di lui. Era l’uomo da scardinare, da ridimensionare, da “umanizzare” per sottrarlo all’aria sacrale che lo circondava. Ma più lo si deformava, più chiaramente emergeva che quella figura, quella voce, quella postura, quel modo di guardare la telecamera e di abbracciare con lo sguardo anche chi non c’era, erano inimitabili. Parodiarlo serviva a confessare che non esisteva un altro punto di riferimento: era l’unità di misura, il benchmark, il muro maestro.

La sua carriera è durata quanto la televisione generalista stessa: nato con il bianco e nero e morto nell’epoca dello streaming, giovane già vecchio negli anni Sessanta e anziano già giovane nei Novanta, sempre contemporaneo, sempre presente, mai eclissato davvero, fino all’ultimo Sanremo del 2008 in cui appariva affaticato, lento, ma ostinatamente fedele al messale, come un prete che continua a celebrare anche in una chiesa terremotata, pronunciando formule che non hanno più il potere di un tempo ma che proprio per questo commuovono ancora di più, perché dicono la resistenza del rito contro l’oblio.

Ci sono state le cadute, come quella del 30 aprile 1990 nel corso di una puntata di Gran Premio (Rai 1), quando Pippo ricevette una torta in faccia mentre intonava una canzone di Domenico Modugno con Franco Franchi e Renato Zero. Per un istante sembrò che l’architrave stessa fosse crollata, il padre inciampato davanti ai figli, la liturgia interrotta da un imprevisto troppo umano per non sembrare sacrilego. Eppure proprio lì stava la sua forza, perché si rialzò subito, da solo, senza chiedere aiuto, senza concedere la minima pausa comica, come se la caduta fosse stata prevista (cosa certa) e la resurrezione fosse parte del copione (concetto dogmatico). In quel momento si coglie ancora meglio la differenza con un Mike, che cadeva ogni sera nelle parole e nei congiuntivi e la gente rideva riconoscendo sé stessa nei suoi inciampi e trovando nell’errore una carezza; mentre la caduta di Baudo non era ammissione di familiarità ma esercizio di disciplina; e così Mike era l’Italia che si assolve, Pippo l’Italia che si mette in riga, due padri simbolici e opposti ma indispensabili entrambi, l’uno per sentirsi perdonati, l’altro per credersi migliori di quello che si era. In altre parole: una televisione come specchio contro una televisione come altare.

Oggi che Pippo Baudo è morto resta quell’immagine che stringe la gola: lui in piedi, lo sguardo fisso in camera, l’orchestra dietro, e le parole che riaprivano l’Italia con un rumore scrosciante da saracinesca: “Signore e signori, buonasera!” Non era una frase fatta, ma uno statuto. Oggi non c’è più nessuno che possa pronunciarlo senza sembrare un usurpatore o un millantatore e forse è giusto così, perché se la televisione è stata davvero la nostra cattedrale laica, Baudo ne è stato il campanile, e la sua voce rimarrà come l’eco delle campane: grave, rassicurante, ironica, baritonale, l’ultima voce che ha saputo parlare a nome nostro prima che tutti cominciassimo a urlare da soli.

Negli ultimi anni Baudo non era uscito dallo schermo, eravamo noi che gli avevamo abbassato il soffitto. Abbiamo ridotto la navata. Abbiamo barattato la basilica per l’altarino. Se domani rinascesse un Pippo, non sapremmo nemmeno più dove metterlo.

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