L’ultima danza delle gemelle Kessler | Rolling Stone Italia
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L’ultima danza delle gemelle Kessler

Le due donne che ci hanno insegnato la cultura pop contemporanea se ne sono andate nel modo più sorprendente, e naturale, possibile: rimanendo fedeli a sé stesse, fino alla fine

Alice ed Ellen Kessler

Le Gemelle Kessler nel 1976

Foto: Arthur Grimm/United Archives via Getty Images

Le gemelle Kessler non se ne sono semplicemente andate: hanno lasciato il palcoscenico con la stessa coreografia impeccabile con cui l’avevano attraversato per quasi un secolo, trasformando perfino l’atto finale in una performance di stile assoluto. Morire insieme, in due appartamenti separati solo da una parete scorrevole, con le ceneri pronte a mescolarsi a quelle della madre e del cagnolino Yello, è un gesto che nessuna leggenda pop contemporanea riuscirebbe a replicare senza sembrare forzata. Loro no: erano pop prima che il pop diventasse un genere; erano una brand identity vivente quando ancora nessuno sapeva cosa fosse il branding.

Eppure la loro storia nasce nella parte grigia dell’Europa, la DDR, dove il palcoscenico era più un’aspirazione che una promessa. A undici anni già nel programma di danza dell’Opera di Lipsia, a diciotto in fuga, poi Parigi, poi la Bluebell Girls, poi finalmente l’Italia, che nel 1961 le accoglie come due astronavi glamour sbarcate in un Paese che stava metabolizzando il Boom economico e cercava nuove favole mediatiche da consumare in bianco e nero. E fu subito ipnosi collettiva: Antonello Falqui le lancia in Giardino d’inverno, Don Lurio le coreografa, Gorni Kramer le dirige come se fossero strumenti musicali, Mina e il Quartetto Cetra diventano compagni naturali di un immaginario che stava costruendo, pezzo dopo pezzo, la grammatica scintillante della televisione italiana (se tutti loro avessero saputo cosa sarebbe poi diventata la Tv italiana…).

Da-da-un-pa sarebbe oggi un tormentone globale su TikTok, ma loro lo cantavano quando i social network erano i salotti delle zie e la viralità si misurava in milioni di italiani fermi davanti a un unico schermo. Le gambe più sorvegliate (e desiderate) d’Italia venivano protette da calzamaglie imposte dai censori Rai – non per pudore, ma per protocollo estetico – eppure era proprio da lì, da quella sensualità addomesticata, che nasceva il loro fascino: una pop culture castissima e incendiaria allo stesso tempo, capace di far sognare senza mai spingersi nel territorio del proibito.

Non erano soltanto ballerine: erano un fenomeno comunicativo totale, un’estetica vivente, due cyborg ante litteram in cui simmetria e disciplina diventavano linguaggio. E in un’epoca in cui tutto è performance, tutto è contenuto, tutto è identità liquida, loro appaiono, ormai a posteriori, come un archetipo: due corpi identici che funzionavano come antenne perfette, catturando e rilanciando l’energia dell’Italia del Boom, del varietà, del cinema di Risi e Sordi, del teatro di Brecht, dei caroselli pubblicitari, dei 45 giri, dei musical anni Settanta, del Playboy italiano che con loro tocca il suo picco di vendite come se avessero trasformato la carta in un oggetto desiderabile quanto un vinile da collezione.

La loro vita sentimentale era pop quanto la carriera: flirt famosi, amori interrotti, un Burt Lancaster che non regge il mito di sé stesso, Enrico Maria Salerno che entra e esce di scena come un personaggio di un film di Antonioni, Alice che dichiara di essere stata con venti uomini in un anno mentre Ellen resta per vent’anni con Umberto Orsini.

Eppure non c’è mai scandalo, mai pornografia emotiva, mai quel tipo di lama che oggi passiamo sulle vite degli altri in pubblico: loro erano pop ma mai cheap, glamour ma mai plastificate, libere ma mai sopra le righe. In questo, più che in tutto il resto, sono modernissime. E quando nel 1986 decidono di tornare in Germania, lo fanno senza mai spezzare il cordone ombelicale con l’Italia: continuano a frequentare i programmi tv, tornano a teatro, partecipano a Sanremo, e perfino in età avanzata dichiarano che sì, certo, reciterebbero volentieri per Woody Allen o Paolo Sorrentino – due registi che, in qualche modo, avrebbero potuto davvero incastrare il loro immaginario iper-pop in un racconto sulla memoria o sul desiderio.

Oggi che se ne vanno insieme, come un’ultima inquadratura simmetrica girata con la precisione di un maestro della fotografia, ci chiediamo perché il loro mito continui a colpirci così tanto. Forse perché ci ricordano un’epoca in cui essere pop significava essere amati da tutti, non segmentati in nicchie; un tempo in cui la Tv generava cultura condivisa, non algoritmi; un mondo in cui la leggerezza non era superficialità ma una forma di grazia.

Le Kessler oggi ci parlano più di quanto sembri: ci ricordano che lo spettacolo può essere elegante, che la disciplina può essere glamour, che l’ironia può essere rivoluzionaria e che il pop, quello vero, non nasce dal rumore, ma dalla precisione. E mentre scorriamo il feed alla ricerca di qualcosa che ci sorprenda, capiamo che la sorpresa, quella vera, ce l’avevamo davanti da sessant’anni.

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