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Fabio Fazio è sempre lo stesso, pure su Nove

Cambia solo il logo dell'emittente in alto a sinistra, per il resto la ricetta è identica a quella made in Rai 3: c'è Luciana Littizzetto in posa sul tavolo, c'è il sermone di Michele Serra, c'è Liliana Segre e pure il situazionismo di Nino Frassica. Mentre fuori tutto si trasforma, 'Che tempo che fa' riduce al minimo i rischi. E forse vince

Foto: Disovery

Dopo tutte le speculazioni estive su lottizzazioni, purghe vere o presunte, “Tele Meloni”, dispute sulla gestione dei social e distopici Festival di Sanremo condotti da Pino Insegno, abbiamo finalmente assistito alla prima volta di Fabio Fazio in un’emittente non pubblica.

L’impressione iniziale è che, anche al di fuori da Viale Mazzini, il “Fazio–verso” rimanga lo stesso: è un sistema perfetto e autosufficiente, con le sue ambientazioni, i suoi colori istituzionali e sobri, i suoi comprimari e le sue liturgie inscalfibili. La formula, insomma, è sempre la stessa: c’è la nazionalpopolarissima Luciana Littizzetto in posa sul tavolo, c’è il (prevedibile, ma necessario) sermone anti–governativo di Michele Serra, ci sono gli annunci sospirati di Filippa Lagerbäck, c’è il blastaggio cattedratico di Roberto Burioni e pure il situazionismo di Nino Frassica. Insomma: al di là del logo dell’emittente in alto a sinistra, Che tempo che fa è rimasto lo stesso, senza alcuna variazioni sul tema.

E infatti Fazio esordisce con delle parole che soddisfano la clausola più importante presente nel contratto non scritto siglato con la porzione di pubblico più importante da soddisfare, quel inserita dal popolo del divano ultraconservatore (e abbastanza in là con gli anni) che temeva come la peste stravoglimenti e scelte azzardate: «I pesci alla fine ci sono, possiamo cominciare. Buonasera, siamo sempre noi». E ancora: «La squadra è la stessa, è tutto uguale, non è cambiato nulla. Si ricomincia». Il sottotesto è chiaro: mentre fuori tutto si trasforma, in un paese costituzionalmente gerontocratico vince chi rimane fedele a sé stesso e riduce i rischi al minimo.

Il debutto di Nove poteva essere scivoloso anche per l’assenza Patrick Zaki, annunciato in pompa magna ma poi defenestrato all’ultimo momento per le sue idee non esattamente favorevoli riguardo a Bibi Netanyahu. Un ostracismo che, in rete, ha fatto gridare molti al boicottaggio del programma. Fazio, però, ci mette il mestiere e bypassa ogni pericolo chiedendo implicitamente allo spettatore di sospendere la propria incredulità e, insomma, far finta che la polemichetta non sia mai esistita. Del conflitto tra Israele e Hamas, comunque, si parla lo stesso, ma a farlo è l’equidistantissimo Giovanni Floris, antidoto perfetto alla partigianeria potenzialmente velenosa di Zaki: dardo avvelenato schivato.

Di quanto sta accadendo nella striscia di Gaza ha parlato pure il primo intellettuale intervistato dal nuovo Fazio discoveriano, ossia lo scrittore israeliano David Grossman, che – in un perfetto allineamento di pianeti – ha palesato la posizione progressista perfetta per un contesto CTCF: «Da 56 anni noi israeliani stiamo occupando la terra di un altro popolo e questo da solo è un fatto. Ma trovare l’umanità nel nemico credo sia difficilissimo adesso. Israele è stata tradita dalla propria leadership». E ancora: «Essere esposto a una brutalità così incredibile, a questo male totale, ti fa non voler essere in quel mondo che permette dei comportamenti di questo genere. Hai la sensazione che la tua mente non possa contenere tutto questo, che la lingua non possa esprimere ciò che è stato fatto». Dopo aver ricordato il prezzo altissimo pagato dalla sua stessa famiglia al conflitto arabo-israeliano – suo figlio Uri morì all’età di 20 anni nel corso della guerra contro il Libano dell’estate 2006 – Grossman non ha lesinato comunque pesanti critiche al governo guidato da Benjamin Netanyahu, nell’occhio del ciclone per non aver protetto adeguatamente il fronte sud ed evitato il massacro. «C’era un patto dietro l’idea della fondazione dello Stato di Israele, di garantire un posto sicuro per gli ebrei. Hanno tradito quel patto. E ora la nostra paura è quella di perdere il nostro Paese, e di pagare un prezzo troppo grande».

Anche la presenza di Liliana Segre, presentata come una «donna di pace», è stata inserita bene nel contesto. L’interazione tra Fazio e la senatrice funziona: lui inizia con il lei, l’ospite lo esorta a passare a un registro informale e a utilizzare il tu. Obiettivo sul vistoso cerotto che Segre portava sulla fronte, disvelamento del mistero – «ho sbattuto in cucina mi è venuto un bernoccolo» – e intervista un po’ fluida, senza una direzione ben precisa.

Esaurito il pruriginoso spazio dedicato all’attualità internazionale è finalmente tempo di cazzeggiare. Per fortuna a introdurre il giusto quantum di disfunzionalità c’è Ornella Vanoni, una delle nuovi ospiti fisse del programma, che gli ultimi giorni non li ha passati certo a rianalizzare la dichiarazione di Balfour. L’aneddoto del «pacemaker come quello di Mick Jagger» è straordinario da troppi punti di vista: il modo in cui lo racconta, la sua mimica facciale, l’interazione con il pubblico, l’imprecazione contro Beppe Sala. Tutto perfetto, vedere per credere:

Non poteva mancare la letterina di Luciana Littizzetto, un portato novecentesco capace di sopravvivere a qualsiasi cambio di governo, con le attese frecciatine alla maggioranza di destra. L’introduzione «Sappi che parlerò di Meloni e dell’opposizione che la combatte ogni giorno, ma oltre che di Salvini parlerò anche della Schlein…e del suo fantastico modo di esprimersi che certamente avvicinerà al partito democratico i ceti più semplici e proletari. Parlerò di Crosetto e di Pichetto, di Sangiuliano e dei libri che non ha letto. Parlerò di Piantedosi che ama i migranti ma a piccole dosi, e anche di Giorgetti che toglie le tasse ai grandi e le lascia ai piccoletti».

Il dato di ascolto per la prima puntata su Nove certifica che il piano ha funzionato: Fazio puntava a superare la soglia del 4% (probabilmente mantenendosi volontariamente basso), calcolando tutti gli 8 canali su cui era trasmesso in contemporanea ha fatto il 13%: un dato inedito per la rete.

Insomma, CTCF non sposta neppure di un millimetro la sua fama di David Letterman Show nazionalpopolare. In Italia è ancora la cosa più vicina che esista a un late show americano. E va bene così.

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