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Chi critica Sanremo gli fa solo un favore

Forse è proprio il gonfiare oltre misura i punti deboli, il massimo errore commesso dai detrattori del Festival. Giudicarlo ad esempio come l'apoteosi del trash televisivo suona un filo pretestuoso, considerando che viviamo in un Paese che negli ultimi decenni ha visto nascere e prosperare trasmissioni peggiori.

Foto Maurizio D'Avanzo/MDPhoto / IPA

Ho visto alla televisione una delle serate di Sanremo. Ero a cena in casa di amici e non ho potuto sottrarmi. […] Non ho mai visto niente di più anchilosato, rabberciato, futile, vanitoso, lercio e interessato“. Con queste parole certamente non fraintendibili, nel 1968 Ennio Flaiano esprimeva il suo giudizio sul Festival della Canzone Italiana. In quegli stessi anni Pier Paolo Pasolini dedicava alla manifestazione un pensiero non meno affilato: “Sanremo e le sue canzonette sono qualcosa che deturpa irrimediabilmente una società“. Durante i suoi quasi settant’anni di storia, il Festival è stato spesso facile bersaglio degli strali del mondo intellettuale del nostro paese.

Un’ostilità generalizzata, bipartisan: da Marcello Veneziani che nel 2016 dipingeva l’evento come un “concentrato dell’Italia minchiona” a Michele Serra che, prima di diventare uno degli autori dell’edizione del 2014 condotta da Fabio Fazio, dalle colonne di Repubblica lo descriveva come un’entità “capace di risucchiare gli umori bassi della società”. Un’avversione che non coinvolge soltanto il mondo della cultura italiana ma che attraversa e divide in due l’intero Paese. Dall’intellettuale alla casalinga di Voghera, dal professionista affermato al precario, le milizie dei detrattori di Sanremo sono ben nutrite ed ogni anno, sul finire di gennaio, cominciano a scaldare i muscoli pronte a dare battaglia per spiegare come il Festival rappresenti, se non il male assoluto, una delle peggiori piaghe che affliggono lo stivale.

Tra le numerose argomentazioni che portano a loro favore, una delle più gettonate – nonché prevedibili – è la scarsa qualità delle canzoni che edizione dopo edizione vengono proposte. Si tratta di una tesi chiaramente inconsistente, alla quale risulterebbe fin troppo facile replicare contrapponendo un elenco di bellissimi brani che, con alterne fortune, sono passati per Sanremo. E qui il detrattore del Festival potrebbe replicare, portando ad esempio la solita Vita Spericolata di Vasco Rossi, che le belle canzoni a Sanremo non godono di buona sorte. Anche a questa obiezione è possibile replicare ricordando come da Modugno (Nel Blu Dipinto di Blu, 1958) agli Stadio (Un Giorno Mi Dirai, 2016), passando per Sergio Endrigo (Canzone Per Te, 1968), Nada (Il Cuore è Uno Zingaro, 1971), Alice (Per Elisa, 1981), Massimo Ranieri (Perdere l’Amore, 1988), Avion Travel (Sentimento, 2000) e molti altri, siano stati numerosi gli artisti premiati con la vittoria grazie a canzoni di grande qualità. Certo, negli anni si sono visti trionfare anche i Valerio Scanu o i Mino Vergnaghi a discapito di grandi canzoni finite a fondo classifica se non addirittura eliminate. Ma dopotutto Sanremo è una gara, e dove c’è competizione spesso c’è anche ingiustizia.

Altro argomento prediletto delle milizie antifestivaliere è la presunta discrepanza tra quanto viene cantato sul palco dell’Ariston e quello che è il reale panorama canoro nazionale: Sanremo, insomma, sarebbe privo della capacità di rappresentare adeguatamente il mondo della musica italiana. In effetti c’è stato un decennio durante il quale il Festival apparve totalmente slegato dalla realtà musicale – e anche sociale – dell’epoca: gli anni Settanta. L’Italia era dilaniata dal terrorismo e dai conflitti sociali, nascevano le prime radio libere, con loro si affermava una nuova generazione di cantautori attenti a tematiche importanti e intanto, all’Ariston, impazzavano gli Homo Sapiens, Enzo Carella e i Collage. Quelli, non a caso, furono gli anni più oscuri di un Festival che ha quasi sempre saputo farsi sintesi, nel bene e nel male, della musica che gli gira intorno.

Talvolta – specialmente durante gli anni Sessanta e Ottanta – lo ha fatto in maniera mirabile, e in una certa misura lo sa fare ancora oggi, se è vero che nell’edizione che si appresta a partire potremo ascoltare da Renzo Rubino a Lo Stato Sociale. Certo, la carica innovativa non è sicuramente parte del DNA del Festival; bollare però la rassegna quale origine di quelle secche creative nelle quali da anni la musica italiana è impantanata – fingendo di ignorare il ruolo e le responsabilità delle major discografiche – equivale ad accusare l’Honduras di essere il principale responsabile del riscaldamento globale.

Forse è proprio il gonfiare oltre misura i punti deboli di Sanremo, che certo sono numerosi, il massimo errore commesso dai suoi detrattori. Giudicarlo ad esempio come l’apoteosi del trash televisivo suona un filo pretestuoso, considerando che viviamo in un Paese che negli ultimi decenni ha visto nascere e prosperare trasmissioni come Colpo Grosso, Non è la Rai, La Sai l’Ultima, Uomini e Donne e Pomeriggio Cinque, giusto per ricordare una minima percentuale della TV trash che nel sistema televisivo italiano ha trovato terreno fertile. Se paragonato a buona parte dell’attuale offerta, il Festival rischia casomai di annoiare per eccesso di misura: “Aridatece Cavallo Pazzo”, verrebbe da supplicare.

La verità è che coloro che criticano il Festival, più o meno inconsapevolmente nutrono questa creatura che ogni anno nasce, cresce e muore in meno di una settimana. Cresce a dismisura, nutrita dalle migliaia di parole che le vengono dedicate, dai servizi televisivi, dagli speciali, dagli articoli di giornale, dai tweet e dai post su Facebook. Perché tutti quanti nutrono Sanremo, anche le voci critiche, perfino coloro che ne parlano per dire che non lo guarderanno. A ben guardare, tutto è racchiuso in quel “non ho potuto sottrarmi” di Flaiano. Se non poteva farlo lui, come possiamo pensare di riuscirci noi?

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