Perché ‘The Last of Us’ è (già) una delle serie migliori dell’anno | Rolling Stone Italia
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Perché ‘The Last of Us’ è (già) una delle serie migliori dell’anno

Fallire ancora una volta nel passaggio dalla console a un diverso media era facile. E invece l'adattamento di uno dei videogiochi più famosi del mondo spacca, grazie a una sapiente fusione dei linguaggi e a sottotesti ben più apocalittici dell’epidemia

Perché ‘The Last of Us’ è (già) una delle serie migliori dell’anno

Bella Ramsey (Ellie) e Pedo Pascal (Joel) in 'The Last of Us'

Foto: HBO/Sky

Partiamo da una cosa molto importante. Ho avuto la fortuna di vedere la prima puntata di The Last of Us in uno dei cinema più belli d’Europa, il BFI Imax di Londra. E quando ti accorgi che un prodotto pensato per la televisione dà il meglio di sé su uno schermo maestoso, allora ti chiedi se non sarebbe commercialmente vantaggioso per tutti uno sfruttamento in sala. Piccola digressione per dire che la serie tratta dal videogioco di Naughty Dog, creato da Neil Druckmann e Bruce Straley, si rivelerà nel tempo essere una pietra miliare per tutto il mondo dell’entertainment audiovisivo.

Fallire ancora una volta nel passaggio dalla console a un diverso media era facile, di esempi ne abbiamo avuti a bizzeffe. Vogliamo parlare della lunga pletora di porcherie firmate da quel gran paravento di Uwe Boll? Per chi non conoscesse la storia, è utile fare un ripasso. Uwe Boll è probabilmente l’unico cineasta al mondo che ha avuto il privilegio di avere avuto una petizione online in cui il popolo del web, e soprattutto dei videogiocatori, gli chiedeva di ritirarsi. Negli anni 2000, grazie a una scriteriata agevolazione fiscale del governo tedesco (cancellata nel 2006, probabilmente perché la Germania tutta si vergognava di quello che un loro connazionale stava combinando con quell’inghippo), Boll riuscì a mettere le mani sui diritti cinematografici di numerosi videogiochi di successo, coinvolgendo in produzioni non ricche, ma nemmeno poverissime, star emergenti e vecchie glorie.

Snoccioliamo un po’ di nomi. In Alone in the Dark, nel 2005, riesce a mettere insieme Christian Slater, Stephen Dorff e Tara Reid. Nello stesso anno produce e dirige anche Bloodrayne, in cui addirittura troviamo Michelle Rodriguez, Michael Madsen, il leggendario Meat Loaf e un premio Oscar del calibro di Ben Kingsley! E cosa dire di In the Name of the King, ispirato alla saga videoludica di Dungeon Siege, in cui in rapida successione vediamo cercare di buttare nel cesso la loro carriera Jason Statham (ma Giasone è più forte di qualunque spazzatura), Ron Perlman, Claire Forlani, Matthew Lillard e i compianti Burt Reynolds e Ray Liotta. Potrei continuare, ma vi risparmio.

Questo per dire che sarebbe bastato il Maestro di Wermelskirchen per mettere la parola fine alle avventure cinematografiche dei videogame. Ma a dirla tutta, non è l’unico ad averci provato. L’esempio principe è quello di Super Mario Bros, il live action con Bob Hoskins nella salopette dell’idraulico della Nintendo. Al suo fianco John Leguizamo nei panni del fido Luigi e l’allora astro nascente (era il 1993) Samantha Mathis, che alla fine fu l’unica che da quel fiasco clamoroso ne uscì con le ossa rotte (e pensare che lo stesso anno fu la protagonista di Quella cosa chiamata amore, uno dei tanti film incompresi di Peter Bogdanovich in cui le fanno da spalla River Phoenix e Sandra Bullock). Andiamo avanti veloce, tra un’Angelina Jolie con la treccia in due esecrabili trasposizioni di Tomb Raider (non che quella con Alicia Vikander fosse molto meglio), Michael Fassbender che butta 125 milioni di dollari per il più che dimenticabile Assassin’s Creed e, last but not least, Tom Holland che riesce a far incassare 400 milioni a Uncharted, un film brutto come un tornante ghiacciato in discesa senza freni.

Foto: HBO/Sky

Quello che non ha funzionato in tutte queste operazioni, sulla carta dei successi da rapper in piscina che si accendono sigari cubani con banconote da 100 dollari, è stato il non essere mai riusciti a mettere d’accordo due mondi tanto diversi quanto complementari: gli amanti del cinema e i videogiocatori. Cosa che invece è riuscita perfettamente a Craig Maizin, uno che sa come si racconta una storia, ma che ancora di più è in grado di capire il pubblico. Non potrebbe essere altrimenti per uno sceneggiatore celebrato per un mezzo capolavoro come Chernobyl, ma che si è fatto le ossa scrivendo roba a dir poco discutibile come Scary Movie 3 e 4 e Superhero Movie.

Maizin non vuole deludere nessuno, quindi prende il gameplay di The Last of Us e lo teletrasporta come solo Scotty sarebbe stato in grado di fare in un impianto seriale. Per chi si è dannato fino alla consunzione sul gioco, la serie non riserva alcuna sorpresa, il corso degli eventi è identico. Quello che c’è in più, e non è poco, è il sottotesto, e quello lo può fornire solo la Storia, quella con la S maiuscola. Mettici anche la fortuna di avere avuto una bella pandemia mondiale fresca fresca, il viaggio di Joel ed Ellie assume oggi significati profondamente diversi. Siamo tutti dei sopravvissuti, c’è un’empatia altra nei confronti di questa disfunzionale coppia padre-figlia che cammina attraverso l’America contemporanea. L’epidemia scoppia nel 2003, non ci sono stati Trump e l’assalto a Capitol Hill, ma neanche il primo presidente nero. La nazione non ha sofferto la crisi finanziaria che l’ha devastata nel 2007, però ehi, è lo stesso pieno di mostri là fuori. Quell’America che nel momento in cui è necessario compattarsi, restare uniti, sceglie invece ancora una volta di trovare un nemico, fosse anche il vicino di casa.

Foto: HBO/Sky

The Last of Us è tutta qui, nelle pieghe della scrittura e nelle due digressioni originali che si concede Maizin, nel terzo e nel quarto episodio, posizionate ad arte nell’economia del racconto e per come si integrano con gli eventi del videogioco, in violenta contrapposizione tra loro per temi e sensibilità. Il terzo episodio di The Last of Us compete con l’ormai leggendario San Junipero di Black Mirror. Il successivo è una sintesi della follia del potere. Sullo sfondo c’è il Grande Paese, che non è quello da soap opera di The Walking Dead, ma quello della Strada di Cormac McCarthy, e anche dell’Uomo del giorno dopo di Kevin Costner. Soprattutto, è l’America che, dopo avere visto le Torri crollare e avere mandato uomini e donne a morire inutilmente a migliaia di chilometri di casa, viene punita per i suoi peccati. E Joel è il primo a cui viene chiesto di portare per sempre con sé questo tremendo fardello. E nonostante tutto, anche camminando verso la fine del mondo c’è spazio per l’amore.

C’è davvero tanto di umano in questo viaggio in mezzo ai mostri, mutati e non, e la coppia Pedro Pascal-Bella Ramsey funziona alla grande, imperfetti, spezzati e inarrestabili. È una grande storia quella di The Last of Us, lo è stata per chi l’ha giocata, lo sarà per chi la guarderà (su Sky Atlantic e in streaming su NOW, in contemporanea con gli USA), e non è una visione passiva, al contrario. Perché resta tanto su cui riflettere. In quel poco tempo che ci resta prima del prossimo giro di giostra.