Perché (quasi) tutti stanno massacrando ‘Blonde’ | Rolling Stone Italia
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Perché (quasi) tutti stanno massacrando ‘Blonde’

Feti parlanti, misoginia, exploitation. Il non-biopic su Marilyn con Ana de Armas è il film più discusso del momento, criticatissimo da puristi, abortisti, femministi. Ecco le posizioni più calde di un dibattito che arriverà fino agli Oscar (o forse no)

Perché (quasi) tutti stanno massacrando ‘Blonde’

Ana de Armas è Marilyn Monroe in ‘Blonde’ di Andrew Dominik

Foto: Netflix

Per alcuni è “solo” un brutto film, per altri (la maggior parte) materia di polarizzazione accesissima. Da Venezia 79, dove è stato presentato in concorso, all’arrivo su Netflix, dove ora è il titolo più visto, Blonde è il film più discusso del momento, massacrato da puristi, abortisti, femministi. E non solo. Ecco le posizioni più calde di un dibattito che arriverà fino agli Oscar. O forse no: sorry, Ana.

Qualcuno ha un Travelgum?

Non è una biografia, ci tengono a dire i (pochi) difensori di Blonde. Il film è tratto da un celebre romanzo di Joyce Carol Oates, evidentemente ispirato alla vita di Marilyn, che però è, come nello stile dell’autrice, frammentario, parziale, caotico, immaginifico, costruito attraverso continui salti avanti e indietro nel tempo e nello spazio. È la stessa struttura che ha cercato di mantenere il regista Andrew Dominik nell’adattare il libro, ci tengono sempre a dire i (pochi) difensori di Blonde. Sì, d’accordo. Ma c’è caos e caos. E il caos d’autore che il regista/sceneggiatore ha in mente, nella traduzione per immagini di questa storia, ha qualcosa di troppo programmatico, autocompiaciuto e, in definitiva, semplicemente confuso: roba che a volte ti verrebbe da chiedere un Travelgum per superare il mal di mare. E poi c’è il solito tema della durata, il grande problema di Netflix quando dà da lavorare ai Grandi Autori. I produttori sembrano tutti morti, o quantomeno spaventati di fronte all’idea di tagliare le opere più cinéphile del loro catalogo. Ma Dominik non è il Martin Scorsese di The Irishman. Proprio no.

Feti parlanti e dove trovarli

Probabilmente la parte più cringe di Blonde è il feto parlante. Nel film, Monroe è costretta a subire due aborti illegali (più un’altra perdita legata a una caduta) che, secondo il romanzo di Oates su cui è basata la sceneggiatura, avrebbero distrutto la vita della diva. Una scena in particolare mostra questa versione in computer grafica del feto che interroga la star sul proprio destino: «Non mi farai del male questa volta, vero?». Rosemary’s Baby chi? Ecco, con l’industry più che mai attenta alle rappresentazioni dell’aborto alla luce del ribaltamento della Roe v. Wade da parte della Corte Suprema, la responsabile per le arti e l’intrattenimento di Planned Parenthood (organizzazione statunitense che si occupa di educazione e salute sessuale) Caren Spruch ha dichiarato: «Dato che cinema e tv modellano la comprensione di molte persone della salute sessuale e riproduttiva, è fondamentale che queste rappresentazioni ritraggano accuratamente le decisioni e le esperienze reali delle donne. Sebbene l’aborto sia un diritto sanitario essenziale e una pratica sicura, i fanatici anti-abortisti hanno contribuito a lungo allo stigma, utilizzando descrizioni mediche imprecise di feti e gravidanza», ha spiegato Spruch in un comunicato condiviso da Variety.

«Il nuovo film di Andrew Dominik rafforza il loro messaggio con un feto che parla in CGI, creato per sembrare un bambino completamente formato». E ancora: «Planned Parenthood rispetta la licenza e la libertà artistica, ma le immagini false servono solo a rafforzare la disinformazione e perpetuare lo stigma sull’assistenza sanitaria sessuale e riproduttiva. Ogni esito della gravidanza, in particolare l’aborto, dovrebbe essere ritratto in modo sensibile, autentico e accurato nei media. È un peccato che i creatori di Blonde abbiano scelto di contribuire alla propaganda contro l’aborto e di stigmatizzare le decisioni sanitarie delle persone».

Un messaggio ovviamente condiviso anche dalla critica, vedi The Verge, che scrive: “Il feto in computer graphic di Blonde è propaganda contro l’aborto travestita da arte”. Mancherebbe giusto una soggettiva dalle parti di basse di Marilyn mentre il medico le infila il forcipe. Ah no, c’è pure quella (facepalm).

Tu chiamala, se vuoi, exploitation

La stessa de Armas aveva già messo le mani (ehm, pardon) avanti: «So esattamente quali scene diventeranno virali, ed è disgustoso». Grazie, Ana, nessuno l’avrebbe mai immaginato. Male gaze, sessualizzazione, pornografia: chiamatelo come volete, ma qualunque autore oggi avrebbe evitato ad ogni costo l’approccio di Blonde. Dominik decide di fare all in nel nome del “Cinema”. A difenderlo ci pensa l’autrice stessa del romanzo che ha ispirato il regista: «Penso che sia una brillante opera d’arte cinematografica ovviamente non per tutti», ha twittato Joyce Carol Oates. «Sorprendente che in un’era post #MeToo la cruda esposizione della predazione sessuale a Hollywood sia stata interpretata come sfruttamento».

Ecco, il punto è proprio questo: la sottilissima linea tra evidenza ed exploitation. Che nella sequenza più brutale, ovvero la scena della violenza (dove si finge di non mostrare nulla per mostrare tutto) nella camera d’albergo di JFK, decisamente diventa meno sottile (ri-pardon). Due scagnozzi dei servizi segreti sollevano Marilyn da terra per portarla nella suite del presidente. «Sono un pezzo di carne che deve essere consegnata?», chiede lei, in tono scherzoso. E, ovviamente, è esattamente ciò che rappresenta nel contesto. Il primo piano del volto dell’attrice durante il “lavoretto” va avanti per circa un minuto e mezzo. E a nulla serve l’approccio “meta” di Dominik, che apre l’inquadratura come se il tutto si svolgesse sullo schermo di un cinema pieno di persone, mentre la protagonista parla di «recitare la parte di una famosa attrice bionda» e ci chiede persino se si trova in un film porno. Poco importa se, come ha sottolineato parte della critica, la voce fuori campo è de Armas che diventa Norma Jeane che diventa Marilyn. Quello che rimane è: «Non vomitare. Non tossire. Non farti venire la nausea. Devi ingoiare».

Misoginia, misoginia canaglia

Spin-off (o forse prequel?) dell’exploitation è il dibattito su misoginia e sessismo alla base, secondo la maggior parte dei detrattori, del punto di vista del non-biopic di Dominik. «Non ho ancora visto Blonde, ma non sono affatto stupita di sentir dire che si tratta di un altro film che “feticizza” il dolore delle donne, persino nella morte». Se di mezzo ci si mette pure la modella-turned-attivista Emily Ratajkowski, è sicuro che si solleverà un polverone social: cosa che puntualmente è accaduta. Non importa se @emrata non ha visto il film in oggetto: oggi del resto chi lo fa, prima di urlare la sua indignazione digitale? «Prendete Amy Winehouse, o Britney Spears, o tutta la psicosi collettiva generata dalla morte di Lady Diana: siamo letteralmente ossessionati dalle donne morte, uccise, o che semplicemente soffrono», ha rincarato, via TikTok, la top. Ultima di molte (e molti) che hanno tacciato Blonde di, appunto, sessismo e misoginia. Fino al finale (ATTENZIONE: spoiler): Marilyn sarebbe vissuta solo in funzione dei suoi uomini. Il padre che l’ha abbandonata, i vari mariti (i due rappresentati qui sono Joe DiMaggio/Bobby Cannavale e Arthur Miller/Adrien Brody) e – ed è ciò che si immaginano romanzo e film nell’ultima scena – l’amante nonché figlio di Charlie Chaplin (Xavier Samuel). Autore delle lettere fittizie che l’attrice credeva spedite dal padre, e che l’avrebbero spinta al suicidio.

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