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Venezia 75, ‘Charlie says’: il mantra delle ragazze di Manson

L'ex 'Doctor Who' Matt Smith è il leader della family nel film di Mary Harron, che cerca di raccontare le seguaci del culto come le vittime che sono state prima e non le carnefici che sono diventate dopo il massacro di Bel Air.

Lo ripetono come un mantra, come il ritornello di una canzone, le ragazze della Manson Family: Charlie says, Charlie dice. “Dice che il passato non esiste, che viviamo nel momento, dice che se vogliamo possiamo diventare elfi con le ali, dice che ognuno deve fare la propria parte” (negli omicidi).

Tre dei quattro membri del culto responsabili dell’uccisione di Sharon Tate, che paralizzò Los Angeles nell’estate del 1969, erano ragazze di poco più di vent’anni: Lulu, Katie e Sadie. O almeno così le chiama Manson. Perché annullarsi è il primo step per entrare nelle grazie di Charlie, il secondo è obbedire. Anche quando Charlie dice loro di togliere la vita a qualcuno.

In attesa di vedere la prospettiva di Quentin Tarantino sulla vicenda, che fa da sfondo al suo nono film Once Upon a Time in Hollywood, la regista di American Psycho Mary Harron cerca di entrare nella mente e nel cuore delle ragazze di Manson. E di inquadrarle non per le carnefici che sono diventate dopo il massacro di Bel Air, ma per le vittime che sono state prima. Vittime di quello che Charlie dice, ordina, comanda. All’inizio, quando tutti i seguaci vivono a mo’ di comune allo Spahn Ranch, e alla fine, quando tutto precipita per il rifiuto di un celebre discografico. Perché Manson sognava di diventare un cantante e, appurato che non succederà, bisogna innescare l’Helter Skelter, l’Apocalisse.

«Oltre alla figura di Manson, quello che mi ha colpito di questo progetto, sono queste tre giovani che ha plasmato completamente. A differenza di lui, loro non erano folli, ma sono state tirate dentro i suoi deliri senza riuscire ad uscirne» spiega Matt Smith, l’ex Doctor Who (e principe Filippo di The Crown) che canalizza il magnetismo, l’egocentrismo, la lucida follia del leader della family. E ci riesce meglio e in maniera più interessante quando canta imbracciando la chitarra con cui si fa scudo del mondo, quando incarna il Manson musicista frustrato, che riesce a convincere i Beach Boys a registrare una delle sue canzoni ma non riesce a farsi scritturare da un’etichetta: «Mi sono affezionato ai capelli lunghi e alla barba incolta, è stato un buon modo per far scomparire Matt e far apparire Manson». Nei panni di Lulu, prima spaventata e sorpresa, poi affascinata e complice, c’è Hannah Murray, la Gilly di Game of Thrones.

Dal resoconto della vita delle donne in prigione, dove una dottoranda tenta di un percorso di riabilitazione psicologica del trio, ai lunghi flashback sulla vita della famiglia, fino alle sequenze fin troppo indagate (per gli obiettivi del film) degli omicidi, Charlie says ricostruisce bene (anche nella fotografia) le atmosfere e analizza i meccanismi di conquista della fiducia e di sottomissione violenta usati da Manson. Ma non riesce mai a decidere come drammatizzare l’indiscutibile partecipazione delle ragazze agli omicidi.

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