Valentina Bellè si racconta: il coraggio di essere normale | Rolling Stone Italia
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Valentina Bellè si racconta: «A New York ho rubato il coraggio di essere normale»

L'abbiamo scoperta grazie alla serie tv “I Medici”, ora si prepara a diventare Dori Ghezzi. Nel frattempo è anche finita in carcere

Valentina Bellè si racconta: «A New York ho rubato il coraggio di essere normale»

Foto di Paolo Leone. Total look Gucci

«Nel mio periodo di maggiore fragilità ho ottenuto più provini che mai. Quando recitavo, tiravo fuori una forza incredibile, ma ero davvero in difficoltà. Dentro stavo malissimo, ma convincevo tutti. Adesso che mi sento più serena, più equilibrata, ho capito che preferisco mille volte sentirmi bene con me stessa, anche se questo dovesse significare lavorare di meno». Valentina Bellè non fornisce coordinate più specifiche sul suo periodo difficile, tantomeno sembra voler approfondire l’argomento. Eppure è lei che lo cita, servendosene per definire il suo cambiamento rispetto al passato, la sua crescita umana e artistica («Vanno sempre insieme», precisa, «quando cresco come persona, cresco anche come attrice e viceversa»).

Valentina ha solo 24 anni (25 anni il 16 aprile, ndr), ma la consapevolezza di sé che dimostra tradisce un lungo lavoro interiore. «Se perdi il tuo centro di gravità, quella dell’attore diventa una professione pericolosa: rischi di non sapere più chi sei, sei in balia di tutto. Ed è difficile, poi, riprendere il controllo. Io sto cercando di imparare a essere più solida, a tenere sempre bene a mente chi sono e cosa voglio, stare bene con me stessa, anche a costo di rinunciare a qualcosa». Dice così, Valentina, eppure non sembra aver dovuto rinunciare a niente, nell’ultimo anno.

Dopo il ruolo di Lucrezia Tornabuoni nella serie tv I Medici – in cui era l’attrice più giovane del cast – una valanga di progetti l’ha travolta: ha lavorato insieme a Luca Argentero e Giacomo Ferrara al film Il permesso, diretto da Claudio Amendola (nelle sale dal 30 marzo). Ha recitato la parte di Nina in Amori che non sanno stare al mondo di Francesca Comencini. Sarà una delle protagoniste di Sirene, serie di Rai Uno diretta da Davide Marengo e scritta da Ivan Cotroneo, e interpreta la parte di Fulvia in Una questione privata, film dei fratelli Taviani (con cui aveva già lavorato in Maraviglioso Boccaccio) tratto dal capolavoro di Beppe Fenoglio, quello che Calvino definì il libro sulla Resistenza.

Foto di Paolo Leone. Total look: Emporio Armani. In tutte le foto make up Giorgio Armani Beauty

«Ho lavorato a Sirene e a Una questione privata in contemporanea: un giorno ero Fulvia – un personaggio che ho amato totalmente, con il terrore di non essere riuscita a trasmettere tutto di lei – e il giorno dopo prendevo il treno, mi infilavo una coda da sirena e cercavo di essere leggera e divertente. È stato un periodo di spostamenti, su e giù per l’Italia, e dentro di me». Valentina conosceva già il mondo delle serie tv: prima de I Medici, aveva avuto un ruolo in Grand Hotel, eppure racconta che, quando è arrivata sul set di Sirene, era piena di timori.

Soprattutto, dice, «temevo di non sapermi confrontare con un ruolo comico. Poi, anche grazie all’aiuto di Luca Argentero (già con lei ne Il Permesso), sono riuscita a sciogliermi. Sirene è una serie surreale, divertente. Mi ha fatto riscoprire il valore della leggerezza e della risata. È stato uno dei ruoli più importanti per la mia crescita, perché mi ha fatto scoprire dei lati di me e della vita che avevo trascurato. Soprattutto, mi ha dato la possibilità di lasciarmi andare, di prendermi meno sul serio». Insomma, non è la figura del genio tormentato quella a cui apparentemente aspira Valentina Bellè. Anche se la sua bellezza intensa, cangiante e dinamica, è in un qualche modo contaminata dalla severità di uno sguardo duro, autocritico. «Ho dovuto lavorare molto alla mia micromimica facciale, sono troppo espressiva. Mi piace essere così nella vita di tutti i giorni, ma sullo schermo ammetto che non funziona».

All’intervista si è presentata con i capelli biondo miele (sta lavorando a un film su De André in cui interpreterà Dori Ghezzi, ndr), tinti e raccolti sotto a un basco nero, che le dà un’aria quasi bohemien. E un po’ artista in effetti lo è: per esempio, è anche un’ottima disegnatrice, basta dare un occhio al suo profilo Instagram, dove registra i suoi work in progress. Così mi viene naturale chiederle se le interessa l’arte contemporanea, ma confessa che finora ha avuto altri interessi.

«Adoro leggere, esplorare, scoprire, ma con i miei tempi. Non ho alcuna fretta. Quando ero più piccola, la mia ignoranza mi imbarazzava, adesso non me ne frega nulla. Una volta, a Roma, volevo noleggiare Quinto Potere e avevo chiesto al ragazzo della cineteca del Centro Sperimentale se potevo guardarlo senza prima aver visto Quarto Potere. La mia domanda è finita sulla bacheca, dove lui riuniva le gaffe della gente che gli chiedeva in prestito i film. Come mi ero vergognata! Adesso quando mi parlano di un film che non ho visto o di un libro che non ho letto, penso che sono fortunata. Ho ancora tanto da scoprire, ancora più degli altri! E l’arte contemporanea rientra in questo forziere di tesori pronto per me, quando sarà il momento giusto». «Anche con i libri è così», continua, senza filtri. «A volte mi fisso con un autore, a volte comincio un libro e lo abbandono, poi lo riprendo dopo anni e mi cambia la vita».

Foto di Paolo Leone. Top Sisley; pantaloni Madame Berwich; chocker in velluto nero con ciondolo a cuore Dodo

«Mi hai detto che ti sei innamorata di Fulvia», le dico, e indago: «C’è un altro personaggio letterario che ameresti interpretare?». «Il mio sogno sarebbe interpretare Franny, di Franny e Zooey, ma dopo aver studiato la vita di Salinger avrei paura di vederlo risorgere dalla tomba all’urlo: “Ma che cazzo stai facendo? È una merda!”. Temo che nessuna interpretazione sarebbe all’altezza della sua Franny e della sua scrittura». Il che introduce una questione cruciale: come si impara a essere all’altezza di un ruolo? Si impara di più al Lee Strasberg Theatre & Film Institute di New York, al Centro Sperimentale di Roma oppure sul campo?

Valentina non ha dubbi: «Ogni progetto ti insegna più di qualsiasi scuola. Negli ultimi anni ho avuto la fortuna di lavorare con attori bravissimi. Ho imparato da loro, guardando come lavorano e anche come vivono, prendendoli a esempio. Nessuno viene e ti dice: fai così o cosà. Il modo per imparare da loro è semplicemente la capacità di osservarli… e rubare. Rubare tutto quel che si può». E a proposito di furti e crimini, iniziamo a chiacchierare sul film Il permesso, che segue la giornata di tre carcerati molto diversi tra loro – Claudio Amendola, che cura anche la regia, Giacomo Ferrara e un silenziosissimo, inedito Luca Argentero – durante la loro prima giornata di permesso.

«E poi c’è la mia Rossana, che è una ragazza della Roma bene, finita in carcere perché l’hanno beccata di rientro dal Brasile con 4 kg di cocaina. Nel lavoro di preparazione, ho inventato per lei un passato con tutti i dettagli di una vita vera, per darmi le cause che la portano a fare determinate cose. Rossana ha bisogno di essere amata, di essere fermata. L’ho immaginata in balia di una lotta interna, che spero di aver reso». Unica protagonista femminile, nel film Valentina è fortissima, un mix di di gesti languidi da viziata, silenzi, provocazioni verbali che usa per litigare di continuo con la madre, sguardi di fuoco, avidi e determinati. «’Sta cosa dei furti mi intriga molto… Durante i mesi che hai passato a New York sei riuscita a rubare qualcosa?», chiedo.

Foto di Paolo Leone.

«Quando hai 19 anni e arrivi in una metropoli come New York da una piccola città come Verona, quello che ti colpisce è il modo in cui la gente è libera di essere quello che vuole. Quindi sì, posso dire che a New York ho rubato qualcosa: il coraggio di essere normale – che poi cosa voglia dire “normale” chi lo sa? Per quanto mi riguarda, la libertà a cui non saprei più rinunciare è quella di essere me stessa senza il dovere di esagerare o dimostrare nulla di grandioso. Che bello non dover colpire nessuno!». Certo poi ci sono momenti in cui devi per forza dimostrare qualcosa e su quello vieni giudicato. E non sempre va bene. Per esempio, l’esperienza al Centro Sperimentale di Cinematografia, al ritorno in Italia, non è stata facile. «Al primo tentativo non sono stata ammessa», racconta.

«Per entrare, bisogna passare una selezione iniziale, poi un primo provino. Io avevo portato un monologo, un testo che avevo tradotto io in italiano, The Time of Your Life di William Saroyan. Poi puoi accedere a un propedeutico di una ventina di giorni in cui inizi a fare lezione con i professori, che così hanno modo di vederti recitare, e il provino finale. Dopo quei 20 giorni, che sono entusiasmanti, passano settimane in cui ogni ora vai sul sito per vedere se ti hanno ammesso o no. Uno stress pazzesco». «Mi racconti il momento in cui hai scoperto che non ti avevano ammesso?», le chiedo.

«Ero a Torino, lavoravo come traduttrice su un set. Entro nel sito e vedo che finalmente c’è qualche risultato. Leggo: 1. Valentina Bellè, 2. tizio 3. caio ecc. Inizio a saltare e a gridare! Dopo aver fatto la matta per la gioia, torno davanti allo schermo e leggo meglio. Poco sotto vedo un’altra lista: praticamente avevano messo prima la lista degli esclusi. Avevano preso 9 studenti. Io ero la decima, la prima degli scartati. Ho iniziato a piangere come poche volte nella vita. Non riuscivo a smettere. Poi, dopo un bel po’, mi sono seduta, ho aperto il mio diario e mi sono messa a scrivere un piano A, B e C. Nel giro di un’ora avevo organizzato tutta la mia vita da lì ai successivi 20 anni», ride. «E poi?», chiedo. «Poi, una settimana prima che cominciassero le lezioni, quando già ero a Londra a realizzare il piano A, mi scrive una ragazza dicendomi che aveva intenzione di ritirarsi e che quindi, se volevo, il posto era mio. Inutile dire che mi sono precipitata a Roma».

Foto di Paolo Leone. Top Pepe Jeans London; shorts in denim Blauer USA; bracciali e foulard legato in vita Hermes; anello in argento Dodo

Alla fine, Valentina non ha nemmeno completato i corsi del Centro Sperimentale: ha iniziato a lavorare prima. Ma ancora oggi sta cercando di capire come vivere con serenità tutte le sfumature della sua professione. «Sai, a volte ho paura di non essere fatta per queste cose. Gli shooting, le interviste, tutto quello che sta intorno a questo lavoro. Vorrei poter recitare e basta. Vorrei usare la mia faccia sul set e poi indossarne un’altra e fare una vita normale». «Temo dovrai abituarti», le dico. «Sì, devo ancora capire come. E comunque, quando mi sento un po’ disorientata, chiedo aiuto ai miei».

Valentina ha quattro sorelle e un fratello. «Abbiamo un bellissimo rapporto da sempre. Ci aiutiamo e ci monitoriamo». «Chissà che meraviglia, quando vi trovate tutti insieme. Sono tutti belli come te?», chiedo. Mi risponde con un sorriso: «Considera che io sono la brutta della famiglia!».