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Usa la forza, Luke

Durante le riprese della seconda stagione siamo stati sul set di 'Luke Cage', la serie tv più black di tutte. Anche dal punto di vista musicale.

Brooklyn, New York. È metà novembre. Mancano pochi giorni al Thanksgiving e sul set di Marvel’s Luke Cage si respira un’aria distesa. C’è persino una giovane assistente di produzione con una parrucca rosa in testa. Stanno terminando le riprese del dodicesimo episodio, il penultimo della seconda stagione, la cui produzione è partita a giugno. Poi, però, niente vacanza: la prossima serie Marvel/Netflix è programmata a breve e coinvolgerà pressoché la stessa troupe. «È un bel problema per il futuro», scherza Melissa, la referente per noi giornalisti.

Gli studios sorgono a Greenpoint, nella zona più hipster e cool della città. «Potremmo definirla una nuova Hollywood», prosegue Melissa. Ci sono set e teatri di posa quasi a ogni angolo, anche grazie al sindaco, il democratico Bill de Blasio, che ha reso economicamente vantaggioso per le produzioni televisive girare qui. Basta fare quattro passi per ritrovarsi davanti a location già viste in serie come The Americans o Girls. Insomma, la tv di qualità è di casa da queste parti.

Di Luke Cage, non a caso, la critica si è innamorata. Per chi non lo sapesse, Luke Cage è un personaggio dei fumetti, tra i primi e più noti supereroi afroamericani, l’uomo dalla pelle a prova di proiettile che protegge Harlem e la comunità nera. Per Simone Missick, l’attrice che interpreta la detective Misty Knight, il valore culturale di questo eroe non è diminuito nel passaggio dalle vignette al piccolo schermo: «Non si è mai vista Harlem rappresentata in questo modo, così come la cultura hip hop, quella jazz e blues. Per la miseria, in una puntata abbiamo avuto Sharon Jones & the Dap-Kings! Quando ti capita di vedere in tv leggende del genere, con il loro bagaglio, la loro storia?». Di sicuro non capita spesso che una serie ponga con questa intensità la musica come uno dei motori della propria narrazione. Merito da attribuire allo showrunner Cheo Hodari Coker.

La sua carriera ricorda quella del regista Cameron Crowe: ex giornalista musicale, oggi sceneggiatore di successo. «La musica arriva per prima. Quando lavoravo per le riviste Vibe e The Source, sceglievamo i titoli studiando la nostra collezione di album, alla ricerca di una connessione tematica tra l’articolo che stavamo buttando giù e questa o quest’altra canzone. Quando scrivo per la tv faccio lo stesso. È lo strumento che uso per interpretare ogni storia».

Una modalità di lavoro che Coker ha trasmesso all’intero cast. «Cheo inserisce i personaggi e Harlem all’interno della musica che sceglie negli script, è come colorare di un’altra sfumatura il costume che indossi». Sono le parole di Alfre Woodard, ossia Mariah Dillard, la “Michael Corleone” della criminalità di Harlem. «Per esempio, siamo riuniti a leggere il copione di un episodio e d’improvviso incappiamo in un riferimento a James Brown. Così uno di noi comincia a battere quel ritmo, lo sai, quel ciàca-cianciàn… e influisce su come ti muovi, reciti. Abbiamo sempre la musica in testa, viviamo nel nostro personale video musicale tutto il tempo».

Per Coker, racconto e sound non smetteranno di contaminarsi nelle prossime puntate: «Assieme a Adrian Younge e Ali Shaheed Muhammad (autori della colonna sonora e figure di spicco del panorama black Usa, nda) quest’anno abbiamo voluto allargare il registro musicale. La scorsa stagione dominava l’hip hop, stavolta troverete anche altro. Se si scava nelle radici dell’hip hop, vengono alla luce gli stretti legami con il reggae, il blues e il jazz. Vedrete che, mentre il protagonista è costretto ad affrontare nuove sfide, anche la soundtrack si allargherà a comprendere questi generi musicali».

È passato un anno dall’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca, mentre la violenza in città non si è mai estinta: «Non mettiamo la testa sotto la sabbia rispetto a quanto sta accadendo nel mondo. Nei primi episodi abbiamo fatto indossare a Luke Cage una felpa con il cappuccio, dando l’opportunità di parlare di Trayvon Martin, il ragazzo innocente ucciso dalla polizia in Florida, e del “problema dell’uomo nero” nella società. Continueremo ad affrontare questioni simili, ma in un modo che non distragga dalla narrazione. Si può davvero andare in profondità: questi show possono far riflettere tutti quanti».

«La televisione sta cambiando, cadono le barriere, e Netflix sta contribuendo», rilancia Alfre Woodard. «Perché sai che dall’altra parte del mondo c’è chi si appassiona alle vicende di una persona totalmente diversa da sé, anche nel colore della pelle. Una bella storia è universale. Anzi: più è specifica, più diventa universale».

Rivedo l’assistente di produzione con la parrucca rosa. Accanto a lei passa un’altra ragazza. È afroamericana, fa la truccatrice, e ha la stessa parrucca. D’un tratto mi accorgo che tutte le donne sul set, asiatiche, ispaniche, assistenti alla regia, addette ai costumi, indossano la stessa parrucca rosa. Scopro che è il compleanno di una di loro. Auguri!

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