Susanne Bier: «Negli USA ho trovato uomini che mi parlavano come se fossi inferiore» | Rolling Stone Italia
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Susanne Bier: «Negli USA ho trovato uomini che mi parlavano come se fossi inferiore»

La regista danese, unica donna ad avere vinto Oscar, Golden Globe ed Emmy, è abbastanza sicura di sé da fregarsene. Ma, dice, la rappresentanza femminile al cinema è un problema che va risolto. Due chiacchere con la presidente della giuria di Venice Virtual Reality.

Susanne Bier scattata in esclusiva per Rolling Stone da Fabrizio Cestari a Venezia 75. Make-up: Giorgio Armani Beauty.

Susanne Bier scattata in esclusiva per Rolling Stone da Fabrizio Cestari a Venezia 75. Make-up: Giorgio Armani Beauty.

Susanne Bier è la prima (e finora l’unica) regista donna ad aver conquistato Oscar, Golden Globe (entrambi per In un mondo migliore, Best Foreign Language Film nel 2011) e l’Emmy grazie alla miniserie per la BBC The Night Manager, tratta dal romanzo di John Le Carrè. Danese, classe 1960, si è fatta un nome come filmmaker poliedrica in un’industria che rimane risolutamente un mondo popolato da uomini e come professionista che ama correre rischi. E questi sono anche i motivi per cui la Mostra del Cinema l’ha scelta come presidente della giuria della Venice Virtual Reality, costituita da Alessandro Baricco e dall’attrice francese Clemence Poesy: «Credo che volessero essere sicuri che chiunque vincerà, lo farà perché nel suo lavoro c’è un contenuto artistico».

Quanto conta il supporto che Venezia sta dando alla virtual reality?
La Mostra è perfettamente cosciente di quello che sarà il futuro e lo sta abbracciando. Il pericolo per i festival è di rimanere troppo legati al passato, di diventare entità nostalgiche sempre meno rilevanti nella società contemporanea, Adottando la VR, Venezia prende di petto il fatto che il mondo dei media stia cambiando.

La VR è il futuro del cinema?
È una parte del futuro, è una delle forme in cui il cinema si presenterà, non c’è una risposta ovvia o facile: la VR avrà un posto nel futuro del cinema, ma sarà uno spazio molto specifico, perché è esigente in termini di risorse, necessità tecniche e anche per il tipo di storie che funzionano.

Hai accettato il ruolo di presidente perché cerchi ispirazione? Stai pensando di lavorare a una VR experience?
Venire a un Festival significa sempre cercare ispirazione, ma non posso dire che farò un film in VR prossimamente. Posso sicuramente affermare che trovo la virtual reality di ispirazione in termini di capire cosa stia succedendo.

Cosa pensi del fatto che ci sia solo una donna regista in concorso?
Credo che sia davvero un problema, lo è in generale la rappresentanza di donne nel cinema. Basti pensare al numero di film diretti da uomini, interpretati da uomini e che raccontano storie di uomini: è lo stato dell’industria, ma è anche lo stato della nostra società, è un dibattito molto ampio e e deve essere affrontato davvero seriamente e con efficienza a tutti i livelli.

Quanto è difficile essere una regista donna?

Vengo da una società piuttosto paritaria in Danimarca, non ci ho mai pensato troppo, almeno finché non ho iniziato a fare film internazionali in particolare in America, dove mi è capitato che gli uomini mi parlassero in modi che non avrebbero mai usato per rivolgersi altri uomini. Ci ho pensato e non mi interessa perché sono abbastanza sicura di me da non buttarmi giù, ma ho impressi nella mente uomini che mi parlavano come se fossero superiori, con poco rispetto. E sinceramente credo siano parte del problema. Per fortuna ho fatto parecchi film e non ho 25 anni, ma se fossi una giovane filmmaker insicura e se quelle persone si rivolgessero a me in quel modo, mi farebbero davvero arrabbiare e mi disturberebbero profondamente. Qualcosa deve per forza cambiare.

Non ci sono molte registe donne che lavorano su generi tipo lo spy-thriller come te, per esempio con la miniserie The Night Manager, perché?
Colpa del pregiudizio, del modo convenzionale di pensare: le donne possono solo fare film sulle donne e gli uomini solo sugli uomini. Ma in concorso c’è The Favourite, che è un lungometraggio girato da un uomo con tre strepitosi personaggi femminili: questi grandi lavori sfidano il pregiudizio e i cliché.

La tv sta vincendo sul cinema?
Non credo che non sia una competizione, la divisione è ancora una volta un pregiudizio, che nasce da un modo di pensare molto convenzionale. È fantastico che Netflix abbia tanti film a Venezia, perché se guardi alla realtà dei finanziamenti, per dare vita a cinema innovativo e coraggioso oggi c’è bisogno della tv. Dobbiamo abbracciarla e capire che possiamo solo guadagnarci tutti da questa collaborazione. E che non c’è davvero alcun conflitto.

Che rapporto hai con il make-up?

Mi trucco solo quando ho red carpet o eventi particolari, normalmente vado in giro con abiti terribili, scarpe basse e niente trucco. E sto benissimo così (ride).

C’è un prodotto speciale che usi qui a Venezia?
Adoro Giorgio Armani Beauty! Compro spesso il loro foundation, molti dei loro prodotti, se vuoi ti faccio vedere cosa c’è dentro la mia borsa (ride). Li ho qui ed ero molto felice quando ho saputo che erano sponsor per il make-up ufficiale della Mostra. E sai cosa mi piace? Armani dona a tutte le età, mentre altri marchi vanno bene solo se hai 19 anni.

L’Europa e anche la Danimarca stanno diventano centri importanti per il cinema e la tv, ci sono serie ambientate nel tuo Paese. Cosa ne pensi?
Penso che tutti i Paesi che non hanno grossi budget per fare film abbiamo sviluppato un forte senso di storytelling. E questo è quello di cui abbiamo bisogno.