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Sorrentino: se non vi è passata la voglia, ‘Loro 2’ è da vedere

Il regista premio Oscar ci ha spiazzati, ci ha portato fuori strada, per poi affondare il colpo del campione. Fin dalla prima scena.

Lo avevamo previsto, Paolo Sorrentino ci ha trollato. Ma non solo con le foto abilmente dosate a uso e consumo del circo mediatico, non solo con una conferenza stampa in cui malcela il suo fastidio per esso – non a caso tra Il Divo e i due Loro l’unico giornalista rappresentato è Scalfari, nel primo – e neanche con teaser e trailer. Lo ha fatto anche con il primo film: poteva, forse doveva il regista napoletano, fare un film unico, più compatto: chi avrà la fortuna di vederli insieme o consecutivamente nella stessa sala, il 10 maggio, lo capirà. Ma il sospetto è anche che, qui e ora, in questo mondo e ai tempi della fruizione seriale, abbia comunque avuto ragione lui.

Quel Todo modo trash, in cui il potere non cerca l’implicito di Petri riguardante un racconto depresso e monastico delle segrete stanze ma piuttosto l’esplicitazione estrema di tutti i gangli di un periodo grottesco e vitale, era propedeutico, iniziatico a Il grande dittatore del premio Oscar. Quel gioco quasi enigmistico in cui tutti siamo cascati – il chi è chi, come ha detto lui stesso in conferenza stampa “appartiene al rotocalco, non ha molto senso per questo film, è stupido farlo”, il come e quanto aderisca l’interpretazione al personaggio, la ricerca morbosa del particolare biografico e storico – lascia lo spazio a un Divo che utilizza l’immagine invece dell’assenza, riservata all’intimità che in Servillo si scorge solo in alcuni sguardi, smorfie, gesti. Perché, ha ragione Veronica Lario-Elena Sofia Ricci (straordinaria), Silvio non si svela mai, la sua è un’eterna messa in scena. “Nel suo Eden sardo – sottolinea proprio l’attore protagonista – Silvio è in uno stato di sopravvivenza che si alimenta del potere o viceversa: non organizza né pianifica mai, attende solo il momento di rientrare in scena”.

E l’uomo, al di là del politico o del piazzista o del tiranno dai piedi d’argilla, puoi forse capirlo solo quando palleggia col mondo come intuì Chaplin. E quindi quando canta Malafemmena, o parla con il fratello o con il suo Ennio, Ennio Doris, al contempo pigmalione e alter ego, musa e specchio. La chiave di questo secondo film e di tutta l’opera – che delitto averlo diviso e mostrato, anche alla critica, così – è proprio il dialogo tra Ennio e Silvio, entrambi interpretati dal protagonista. Scritto magnificamente, tra aforismi – “l’altruismo è solo un’altra forma dell’egoismo” il migliore – e controcampi asimmetrici, ha dentro quella complessità elementare che in un altro momento racchiude con glaciale seraficità il suo braccio destro e costruttore di muri invisibili Paolo Spagnolo, l’ottimo Dario Cantarelli.

Lì c’è tutto Silvio Berlusconi e c’è il nulla di cui è composto, sorta di sintesi di Loro, e quindi di noi. L’uomo la cui debolezza è, ed è stata, sempre quella di rendere palese e pieno d’orgoglio ciò che il potere ha sempre nascosto, con ipocrita pudore, per esercitarlo nel modo più efficace. Voleva essere amato, Silvio, voleva che il potere fosse divertente e vitale, non necrofilo e ascetico.

Il Servillo che fa Berlusconi ricorda il Sordi di Finché c’è guerra c’è speranza, ma senza la possibile redenzione, senza lo schiaffo morale ai suoi parassiti: perché Silvio, Lui, non ha bisogno di una scusa per essere se stesso. Lui sa cos’è questo paese, ne è appunto il punto minimo e massimo, l’iperitaliano che ci conosce tutti, troppo, tanto che al telefono può venderci tutto perché ci legge dentro. Anche l’anima, la nostra. E il suo mondo da prendere a calci è un vulcano sempre evocato e infantilmente deludente.

Ci ha trollato Paolo Sorrentino, perché per regalarci un nuovo pezzo pregiato della sua cinematografia ci ha illuso di aver fatto un passo falso, ci ha portato fuori strada, ci ha raccontato la storia di Sergio Morra come una lunga introduzione, volutamente eccessiva e che risulta necessaria solo ora che affonda il colpo nell’io più profondo del suo protagonista. Anzi, fa di più. Mentre credi che avresti voluto un solo film, più compatto, ci fa sentire la mancanza di un epilogo, di un 2011 che con la sua caduta dei demoni era già cinematografico di suo, ma ha ragione lui: sceglie un altro teatro – che per odio degli spoiler non sveleremo -, più vero e tragico, più difficile. Con la deposizione di un dio, uno vero, in una scena lirica e poetica che prende a schiaffi il resto del film.

Tutto si riequilibra con Loro 2, a tutti gli attori viene data un’altra opportunità, più discreta e dolente. Mentre Servillo spadroneggia, attingendo all’intera valigia dell’attore: dalla commedia dell’arte a Hollywood Party, da Il Divo a Chaplin. E Sordi, e pure il Nanni che lo malediva, perché c’è qualcosa di morettiano nella capacità unica di Sorrentino di unire il lirico e il grottesco, la risata crassa e la malinconia raffinata.

Ed è anche per questo che tutte queste citazioni valgono il giusto: Sorrentino graffia con il suo stile unico e irripetibile ogni fotogramma. Dunque, i 200 minuti e spicci di Loro 1 e Loro 2 sono un’ottima trovata comunicativa, un calando e crescendo a cui il pubblico si sottoporrà con un indubbio successo commerciale, ma non ci permettono di valorizzare a fondo un’opera che è una, finalmente omogenea, eclettica, incentrata in un’anima e un corpo che è la sintesi della moltitudine che si accalca alle porte, metaforiche e fisiche, della sua villa, della sua vita.

Con Berlusconi, figura impossibile da decifrare completamente, persino per il nostro miglior cineasta, Paolo Sorrentino, continua la sua esplorazione del potere e della paura della morte – e non sono forse la stessa medaglia? – intessuta sulla caducità del corpo e del pensiero, ma in questo caso lo concentra su un intero paese e contemporaneamente su un’unica persona. Il primo come un teatro invisibile, il secondo come un mattatore su un palco.

Andate a vedere Loro 1 e Loro 2, se avete resistito alla tentazione (altro centro morale e creativo di questo film), consecutivamente. Lasciatevi andare ai flussi di coscienza, immagini, intuizioni non di rado fuori scala, alla scrittura che sembra sempre andare oltre e altrove per poi ritrovare una direzione, uscite fuori dalla sterile ricerca di facce e nomi. Poco importa se l’ottimo Roberto De Francesco incarni Lele Mora, se Scamarcio e Smutniak, qui bravissimi nello svelare i loro personaggi nelle fragilità e non nell’eccesso del primo capitolo, siano Tarantini e Began. Importa poco, tutto e tutti sono una crasi dei peggiori anni della nostra vita e alla fine ha ragione, forse, il regista quando dice che è solo “una storia d’amore, quella tra Silvio e Veronica, da qui siamo partiti con Umberto Contarello prima di scrivere”.

Godetevi quello che del film vi entrerà dentro vostro malgrado, il Servillo che in Berlusconi mette Pagoda e Andreotti, alcuni dialoghi teneri e ferocissimi, la capacità di non demonizzare l’eccezionale normalità del proprio protagonista. Loro è un film unico, nel senso letterale del termine. E non solo perché “fare un film su Berlusconi è stato più difficile che una serie tv sul Papa, semplicemente perché quel Papa era frutto di pura invenzione in una cornice di verosimiglianza”. Loro, appunto, siamo noi. Che ci siamo sempre nascosti nella terza persona plurale e, in rari momenti di coraggio o inconsapevolezza, nella seconda.

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