Open Roads: quando il cinema a New York parla italiano | Rolling Stone Italia
News

Open Roads: quando il cinema a New York parla italiano

Omaggi, stereotipi e differenze inconciliabili: Pif, Isabella Ragonese, Edoardo De Angelis e i protagonisti dei film Made in Italy raccontano come l'America vede le nostre pellicole

Foto di Margherita Mirabella

Foto di Margherita Mirabella

Le migliori interviste sono quelle che si trasformano in un dialogo libero e polifonico. È successo a Open Roads, rassegna di cinema italiano che New York ospita grazie alla collaborazione tra Cinecittà e la Film Society of Lincoln Center, situata nell’Upper West Side di Manhattan. Il gruppo di attori e registi venuto a presentare i propri film alla XVII edizione ha trovato qui il contesto ideale per immergersi nella realtà multiforme, in continuo cambiamento rappresentata dalla Grande Mela. Usando il cinema come punto di partenza abbiamo parlato in libertà con alcuni di loro: ne è uscito un discorso fluido sul nostro presente e le sue contraddizioni, sull’Italia di ieri e di oggi. E ovviamente su New York…

La città che non dorme mai
«La prima volta che vedi Manhattan rimani a bocca aperta per almeno cinque minuti. Quasi ti aspetti di vedere sul serio Spider-Man tra i grattacieli». A parlare è Pierfrancesco Diliberto, in arte Pif, che ha portato a Open Roads In guerra per amore di cui è regista e interprete principale. «Al sesto minuto però arriva la sensazione di esserci già stato. In fondo siamo cresciuti tutti vedendo New York al cinema o in televisione, e la globalizzazione ha affievolito ulteriormente il senso di meraviglia che la città rappresentava. Prima qui si trovavano cose che in Italia nemmeno ti sognavi, adesso è diverso. Mi piacerebbe portarci mia madre e vedere la sua espressione, per lei era realmente la Terra Promessa».

Isabella Ragonese. Foto di Margherita Mirabella

Isabella Ragonese. Foto di Margherita Mirabella

Isabella Ragonese, protagonista di Sole, cuore, amore, la pensa allo stesso modo: «La prima volta venni per girare Il giorno in più con Fabio Volo. Appena messo piede in città capii davvero la potenza del cinema: è una città che già conosci, appartiene a una memoria collettiva. A me piace soprattutto passeggiare per Williamsburg (quartiere di Brooklyn che affaccia sull’East River, ndr.), dove puoi osservare Manhattan da fuori e non sentirti piccolo, schiacciato da quegli edifici. New York è un luogo da girare a piedi. Io che amo camminare finisco sempre dentro il gioco in cui mi trascina Manhattan, dove non sei mai solo uno spettatore…». Chi non era mai stato a New York è invece il regista di Indivisibili Edoardo De Angelis: «Mi sono emozionato, lo ammetto. Vederla significa in realtà rivederla, conoscerla significa riconoscerla. Purtroppo non avrò molto tempo per visitarla, penso che dovrò scegliere di fare una cosa sola, e sarà trovare un locale per ascoltare del buon jazz…»

Italiani a New York
Gli italiani a New York sono visti ancora oggi attraverso un velo di lieve pregiudizio? E’ Isabella a confermarlo: «Ogni volta che chiedi un caffè ti sorridono contenti, è come se li rassicurasse trovare conferma delle loro idee sul nostro modo di essere. Ma forse anche noi italiani siamo un po’ così, cerchiamo ancora la sicurezza in alcuni stereotipi». «Il pregiudizio culturale può essere superato con la verità – afferma De Angelis – Se come cineasti parliamo di ciò che conosciamo meglio e lo facciamo con onestà, lo spettatore osserverà le nostre storie con attenzione maggiore. Soprattutto con compassione, che è il mio obiettivo principale. Io partecipo alle sofferenze e ai dilemmi dei miei personaggi, insieme a loro cerco una ricostruzione. Quando ci sono in ballo sentimenti come desiderio o paura gli esseri umani sono tutti uguali, si intendono».

Edoardo De Angelis. Foto di Margherita Mirabella

Edoardo De Angelis. Foto di Margherita Mirabella

Uno sguardo al presente
A proposito di onestà e verità, molti dei film presentati a Open Roads osano raccontare alcune delle contraddizioni sociali e culturali che oggi affliggono il nostro Paese. Sole, cuore, amore di Daniele Vicari ad esempio è storia fortemente radicata nella realtà della periferia romana, dove una madre di famiglia è costretta a lavorare con orari impossibili per portare il cibo in tavola: «Il film ci pone una domanda fondamentale: cosa è diventato il lavoro oggi? – si chiede la Ragonese – Il concetto di flessibilità si è trasformato in un’anarchia totale, senza regole. E a farne le spese sono soprattutto le donne che lavorano di più, che vengono assunte perché sono più facilmente ricattabili. Puoi pagarle meno e in nero. Ormai il sistema/lavoro non tiene più conto del limite fisico delle persone, e questo vale a Roma come a New York o altre parti del mondo. E’ un problema universale e fortemente attuale».

Quali sono state per lei le scene più intense da interpretare nel film? «I momenti in cui Eli è da sola, in cui può cedere alla stanchezza e alla disperazione. Lei che dissimula, tiene duro sempre. Invece quando si siede sull’autobus è soltanto una donna a cui cadono addosso tutte le preoccupazioni. Che vita sta facendo? Ha voluto una famiglia numerosa e poi vede i figli solo quando stanno già dormendo. Abbiamo costruito una società dove più si lavora meno si guadagna. E la vita dove sta in tutto questo?».

Roberto Andò. Foto di Margherita Mirabella

Roberto Andò. Foto di Margherita Mirabella

Il meno ‘italiano’ dei film presentati a Open Roads 2017 è senz’altro Le confessioni, il quale vede un monaco tenere in scacco i potenti della terra radunatisi per un G8 che potrebbe cambiare gli equilibri economici del panorama mondiale. Un film che mette in scena la disconnessione sempre più tangibile tra il potere politico/economico e le reali esigenze del cittadino comune: tema sempre più attuale, soprattutto qui negli Stati Uniti. «Volevo fare un film che parlasse di un’alternativa – dichiara il regista Roberto Andò – il personaggio principale possiede un approccio diverso nei confronti delle cose della vita, un distacco prima etico che religioso. Un uomo che attraverso la propria solitudine sa elaborare ciò che gli succede intorno, proprio quello che l’uomo di potere oggi non riesce più a fare. Negli ultimi anni soprattutto gli economisti si sono posti al di sopra di tutti e ci hanno propinato un solo concetto: non ci sono altre soluzioni che la nostra. Sono diventati sempre più isolati, perdendo il contatto con la realtà. L’economia è diventata un gioco di prestigio, una scommessa. Si convolano enormi quantità di denaro su eventi che devono ancora accadere, che s’ipotizzano soltanto».

Pierluigi Diliberto, in arte Pif. Foto di Margherita Mirabella

Oggi come ieri?
Se Indivisibili e Sole, cuore, amore mettono in scena l’Italia di oggi, Pif invece con In guerra per amore ha scelto di confrontarsi con la storia del nostro Paese. E l’ha fatto con ironia e coraggio: dietro la confezione della commedia infatti il film racconta uno dei ‘compromessi’ più contraddittori del XX Secolo, quello che nel 1943 vide l’esercito americano allearsi con la mafia per cacciare i nazisti dalla Sicilia. «È sempre stata la politica americana: se devono sconfiggere qualcuno, si alleano con il suo nemico – commenta Pif – Che si tratti della mafia nella Seconda Guerra Mondiale o dei talebani quando si trattò di cacciare l’Unione Sovietica dall’Afghanistan, a loro poco importa. Purtroppo poi l’Italia ha pagato un prezzo altissimo per quell’alleanza: il crimine organizzato ha continuato a essere fedele alleato non solo dell’America ma di tutto l’Occidente almeno fino alla caduta del muro di Berlino. A me fa schifo chi ancora oggi dice che senza Andreotti saremmo diventati un paese di comunisti. Che poi, al limite, sarebbe stato un comunismo all’italiana, quello di Enrico Berlinguer che andò in Unione Sovietica a sostenere che la democrazia era un valore imprescindibile».

Poli opposti
Con New York e i grandi esponenti del suo cinema Roberto Andò ha avuto un contatto molto più che ravvicinato. Oltre che essere stato assistente di maestri italiani come Federico Fellini e Francesco Rosi, ha collaborato anche con autori del calibro di Michael Cimino e Francis Ford Coppola: «Michael venne nella mia terra a girare Il siciliano, Francis pochi anni dopo per realizzare Il padrino – Parte III. Durante la preparazione del film Coppola decise offrire la parte del cardinale a Gian Maria Volontè, quella che poi interpretò Raf Vallone.

Ricordo che si incontrarono all’Hotel delle Palme a Palermo. Gian Maria aveva già deciso di non accettare e per togliersi dall’imbarazzo chiese a Francis una cosa impossibile: mettere il suo nome sul poster accanto a quello di Al Pacino. Coppola s’innervosì subito e gli disse che la grandezza di un attore non si misura dalla posizione su un cartellone. Gian Maria replicò: «Nel cinema americano si misura solo da quello». Scese il gelo, Coppola se ne andò senza aprire più bocca. Racconto questo per far capire che cinema americano e cinema italiano sono due mondi diversi, quasi inconciliabili».

Anche Isabella la pensa allo stesso modo: «È come se giocassero in due campionati diversi. In America puoi sapere anche con un anno di anticipo che personaggio andrai a interpretare in un film, in Italia puoi ritenerti fortunata se lo sai un mese prima. Per le condizioni in cui lavora, spesso un attore italiano fa miracoli…».

Omaggi
Ne Le confessioni il momento più emozionante del film arriva quando il monaco protagonista, interpretato da Toni Servillo, cita parafrasandolo una verso del poeta greco Jannis Ritson, il quale afferma il silenzio come unica forma di libertà rimasta. «Io sono siciliano, per noi significa soprattutto omertà – sorride Andò – Però Sciascia diceva che c’è un silenzio di accettazione ma anche uno di resistenza. Ecco, oggi questo tipo di silenzio non è valorizzato. Nel mondo contemporaneo purtroppo si preferisce parlare troppo invece che tacere, e qui a New York ciò rappresenta una verità devastante a causa di una figura come Donald Trump. Uno che ha paura di non farsi notare e allora urla, uno che preferisce twittare invece di fare politica. Senza entrare nel merito religioso penso che il migliore statista oggi sia Papa Francesco, lo ammiro perché ha riempito una scena vuota, si è sentito in dovere di fare politica con le sue parole, ma sempre partendo dall’etica. Usa un linguaggio semplice, accessibile a tutti ma che non banalizza i temi trattati. Sta compiendo una piccola rivoluzione, e in casa sua gli stanno facendo pagare…».

Anche in Indivisibili ci sono due omaggi espliciti: il primo è un riferimento a Los Angeles e alla cultura hippie della West Coast: le due protagoniste sognano infatti di cantare (e vivere) la libertà di Janis Joplin. L’altro è rappresentato nome di uno dei personaggi del film, Marco Ferreri: di certo non un caso… «Per Daisy e Viola Janis Joplin e Los Angeles rappresentano l’evasione – dichiara De Angelis – un luogo ideale che evocano con tale forza da poterlo quasi toccare. Ho scelto di far loro cantare Mercedes Benz – l’ultimo pezzo inciso da Janis prima di morire – perché a suo modo è una preghiera, dove chi implora si accontenta sempre più nelle sue richieste, alla fine gli va bene anche un altro solo giro al bar. Cosi Daisy e Viola pregano senza nemmeno saper bene il testo in inglese. Lo fanno perché come molti altri personaggi nel mio film non riescono a togliersi il vizio della speranza. Per quanto riguarda Ferreri, negli anni ‘60 aveva girato a Napoli un film magnifico come La donna scimmia, con protagonista una bellissima Annie Girardot ricoperta di peli. Allo stesso modo anche le due ragazze del film sono bellissime ma in qualche modo menomate. Ferreri per me è stato una guida filosofica più che estetica, era un cineasta onesto, appassionato, che cercava la verità anche a costo di piegare il realismo».

Altre notizie su:  cinema festival italia new york