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“Magic Island”, da New York alla Sicilia, sulle orme di Vincent Schiavelli

La storia di Andrea Schiavelli, musicista, in un delicato documentario "on the road" sulle tracce del padre attore. La riscossione di una piccola eredità raccontata da Marco Amenta sa di vita vera

Dovremmo sempre festeggiare un documentario che esce in sala, perché solo gli esercenti sembrano non essersi accorti di come questo genere, questo modo di fare cinema, non meritasse – e non abbia mai meritato – il ghetto industriale in cui era stato relegato. La sua capacità di mescolare stili, intuizioni e linguaggi lo rende più fertile di quel cinema di finzione che, soprattutto negli ultimi anni, sembra essere schiavo docile di schemi consolidati, più dal marketing che dall’arte.

E sono i lavori come Magic Island, in sala dal 12 gennaio, opere delicate e ricercate – se non forse nel finale che poteva trovare una tonalità meno retorica (ma in fondo lo è anche il sentimento paterno e filiale nella realtà) – a permettere al documentario di raccontare storie diverse e allo stesso tempo eterne. Come quella di Andrea Schiavelli, musicista, alla ricerca di un tempo e di un padre perduto in un’isola magica, la Sicilia, temuta e voluta. Andrea è il figlio di Vincent Andrew Schiavelli. Di cui, forse, il nome vi dirà poco. Ma il suo volto è tatuato nella vostra memoria, perché ve lo ha piazzato lì più volte Milos Forman con altre decine di colleghi, per circa 150 film.

Mai protagonista, sempre caratterista, a metter firme indelebili. Quando stava un passo indietro rispetto a Nicholson in Qualcuno volò sul nido del cuculo – ma attenzione, non è l’istrionismo di Jack a dipingere meravigliosamente quel film, ma il tenero e dolente Frederikson in gita – o quando gli bastava una scena, come in Ghost o nel Batman burtoniano, in cui suonava l’organetto. Anzi a volte non serviva una scena, gli bastava un gesto. Da valletto di Salieri, incarnava il senso profondo del personaggio e della storia di Amadeus. E potremmo fare tanti esempi simili, rimanendo sconvolti di come l’unico premio che gli sia stato riconosciuto, lo abbia vinto per un libro di ricette. D’altronde con i caratteristi, i non protagonisti, Hollywood è spesso taccagna. Con lui lo è stata di più, nonostante fosse della schiatta dei Pesci e dei Palminteri.

Da non protagonista, colpevolmente, Vincenzo – così lo chiamavano a Polizzi Generosa, a un passo da Palermo, dove si rifugiò negli ultimi 10 anni della sua vita – visse anche la vita del figlio. Padre assente fin dalla sua adolescenza e mai troppo presente, Andrea impara a conoscerlo anni dopo la morte. E Marco Amenta, cineasta sensibile e acuto nello sguardo cinematografico come nelle intuizioni, lo segue nel suo approdo in Sicilia, alla ricerca di un pizzico d’eredità. Poche migliaia d’euro, ma è un protesto. La ragione sta nell’ossessione per le proprie radici, che ha portato oltre oceano il padre e ad abitare nello stesso quartiere dell’infanzia di quest’ultimo lui stesso.

Potrebbe, Amenta, cercare il patetismo della dipartita prematura dell’artista, peraltro per una patologia come la sindrome di Marfan, dolorosa e invasiva. E invece no, ci offre, in un pranzo di famiglia, il dolore della morte, vicina e lontana, delle scelte, di una malattia nascosta e incompresa. Potrebbe offrirci un ragazzo, anzi un uomo arrabbiato. E invece Andrea è disorientato, è fragile, è sempre in contatto con le sue emozioni, seppur con ironia (che bella quella risata, che torna spesso) e curiosità. Senza (pre)giudizi, ma con i traumi che lo accompagnano senza schiacciarlo. Il regista non lo incalza, lo guarda e con una scrittura discreta: lo rende protagonista discreto, tra dialoghi profondi e gesti e momenti normali, ma fondamentali.

Magic Island è un on the road che è romanzo di formazione, è un documentario che si fa film, con un non protagonista, Andrea Schiavelli, al centro di tutto. Perché se il padre aveva ostinatamente incarnato il comprimario, con talento raro, forse il figlio si scopre ai margini di un’esistenza che intende riprendersi, insieme alle radici e a quel convitato di pietra che fuggì alla ricerca di se stesso. Ecco perché le musiche di Schiavelli jr non sono (solo) un tributo, ma necessarie a commentare immagini che sono, come le sue note, la costruzione di una nuova identità.

E può essere l’Etna, una chitarra e una canzone, a rappresentare un nuovo inizio.

Non servono immagini di Vincent al cinema. Tanto che in Magic Island vediamo solo pochi secondi di Ghost e Qualcuno volò sul nido del cuculo. Perché un padre ingombrante l’abbiamo tutti, perché il centro del racconto non è la scorciatoia pruriginosa e magari commovente del divo che viene spiato nell’intimità, ma piuttosto la strada più tortuosa dell’analisi di un rapporto complesso, di una vita troppo breve e a cui il caos e il destino ha dato e tolto troppo. E gli Schiavelli, schiavi lo sono. Di se stessi, se solo si pensa alla cucina, che accomuna nonno e padre e nipote, del cinema che accompagna padre e figlio, della Sicilia che batte dentro tutti e tre, che con il suo mare bagna i loro pensieri, ricordi, ossessioni.

Mare, magari, da guardare con una birra in mano, come fanno con lui Salvo Cuccia, all’inizio, e Katia Vitale, alla fine. L’amico, regista, e l’ultima compagna, attrice. E rimane dentro un sentimento tenero e duro, come lo è la vita, come lo è la perdita. E la riscoperta di sé, soprattutto se vissuta attraverso l’occhio di un regista che ama essere essenziale e attento – mai alla ricerca del virtuosismo – ma neanche sciatto, capace di andare in profondità senza disdegnare i dettagli in superficie, nei contenuti come nelle immagini. Se a volte si concede un po’ più di pathos, lo perdoniamo. Amenta sa scegliersi le storie perché si fa trasportare da loro.

Magic Island è una bella storia vera. È un bell’esempio di cinema. È vita, bastarda e dolce come solo lei sa essere.

 

 

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