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Lars Von Trier non è tornato a Cannes per fare la pace

'The House that Jack Built' è una seduta psicoanalitica crudele e potentissima, il film-manifesto di un regista che non tradisce la sua poetica nemmeno se il pubblico abbandona la sala

Un centinaio di persone che fuggono disgustate e inorridite dalla proiezione ufficiale. I meccanici e ossessivi interrogativi che vengono continuamente posti in modo provocatorio allo spettatore: un serial killer può elevarsi alla statura di un’icona o di un’artista? Le uccisioni si possono considerare delle forme d’arte o sono soltanto degli atti osceni e distruttivi? I continui richiami alla misoginia, alla logica nazista (ma anche a Stalin e Mussolini) elevata a forma iconica e fascinosa. Bambini che durante un picnic vengono usati come bersagli per il tiro a segno o il seno di una delle vittime adoperato come banale porta monete. Il tutto inebriato dalle note corroboranti di Fame di David Bowie, un’altra delle icone che appare manifesta nel film.

Signore e signori: Lars Von Trier è tornato al Festival di Cannes. A sette anni di distanza dall’essere etichettato come “persona non grata” a causa delle sue dichiarazioni di simpatia per Adolf Hitler (“Non è proprio quello che definiresti un bravo ragazzo ma ho capito molto di lui e mi fa un po’ di simpatia”) e di antipatia verso Israele (giudicato senza eufemismi “a pain in the ass”) durante la conferenza stampa dell’abbagliante Melancholia, il regista danese è tornato sulla Croisette con un glorioso e grandioso film-manifesto, alimentando già nei giorni e nelle settimane precedenti alla proiezione tutti i dubbi e le aspettative sul possibile grado di violenza e amoralità della sua opera.

The House that Jack Built si muove in una non meglio identificata città degli Stati Uniti, negli anni ’70, dove seguiamo la confessione dell’”intelligente” serial killer Jack (autore di oltre sessanta omicidi) attraverso il racconto e la descrizione, per lunghi tratti ossessivo-compulsiva, di cinque “incidenti”, cinque efferati omicidi commessi nei confronti di donne (e di due bambini) che interagiscono con la sua vita in modo per lo più occasionale o poco approfondito.

Sperimentiamo l’incedere dei fatti dal punto di vista di Jack (interpretato con una bravura eccelsa e disturbante da Matt Dillon) ma è in verità lo stesso Lars Von Trier il sommo protagonista del film: il regista indossa contemporaneamente le vesti del serial killer e del moderno Virgilio Verge (intrepretato da Bruno Ganz), che funge da coscienza critica, ponendolo dinanzi alla miseria morale dei suoi atti e accompagnandolo negli abissi del proprio inferno.

Von Trier ha spesso disegnato lungo la sua filmografia dei ruoli memorabili per le donne e per le sue attrici, se pensiamo a Emily Watson ne Le onde del destino, Nicole Kidman in Dogville, Bjork in Dancer in the Dark, Kirsten Dunst in Melancholia. Le donne di The House that Jack Built appaiono invece profondamente ingenue e stupide, vittime ideali (le preferite con cui al serial killer piace “lavorare”) da sacrificare sull’altare del suo ego e della sua realizzazione “artistica”.

The House that Jack Built mette in scena un’epica seduta psicoanalitica, dove lo stesso regista scava con le unghie, attraverso un lungo raptus ossessivo e nevrotico, della proprie psiche e del proprio inconscio: esaltando e mettendo in evidenza la sua macabra ironia, alcune delle scene più violente e discusse del suo stesso cinema, differenti tratti del suo carattere (narcisista, nichilista, creativo, depresso) che hanno reso celebre il suo personaggio e i suoi film.

L’ultima opera del regista danese è uno di quei film (rammentando in questo anche la proiezione di Mother! di Darren Aronofsky alla Mostra del Cinema di Venezia dello scorso anno) che puoi essere tentato di abbandonare prima della fine, ma di cui parlerai sicuramente molto dopo. Un’opera intima e personale, che sarà verosimilmente idolatrata dai suoi fan ma che potrebbe incontrare qualche resistenza da parte della maggioranza del pubblico.

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