"La La Land" e la rivicintita del musical | Rolling Stone Italia
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“La La Land” e la rivincita del musical

Il musical è capace di tirare fuori il meglio da spettatori e interpreti, ma è anche un genere che non perdona. Abbiamo fatto un punto sul suo passato e il suo futuro, con una featurette esclusiva sulle musiche di "La La Land" in anteprima per voi

Il giorno in cui è morta Debbie Reynolds, i cinefili o anche solo gli appassionati del grande schermo li riconoscevi all’udito. Mentre era tutto un “è morta poche ore dopo la figlia Carrie” dei cannibali del gossip del dolore che aspettavano una cosa del genere dai tempi di Mango e “se n’è andata la mamma della principessa Leia, non ha retto al dolore”, c’era questa nicchia, piuttosto numerosa, che sussurrava con gli occhi lucidi “Good Morning, Good Morning to you”. Sì, chi scrive si è rotto anche il crociato provando la scena del divano in cui lei, Gene Kelly e Donald O’Connor ne ribaltavano uno saltandoci su.

Mettetemi un musical davanti e subito avrà su di me l’effetto che a un bambino di 2 iei fa la visione di Peppa Pig. Unito, però, a una fragilità emotiva senza pari, a ogni sussulto sentimentale dei protagonisti, che neanche un tifoso del Napoli (sempre chi scrive) davanti a Diego Armando Maradona che canta La mano de Dios del compianto Rodrigo Bueno. Momento meraviglioso del cinema moderno che insieme a Manu Chao che gli canta La vida es una tombola come serenata diurna, rende Maradona by Kusturica un musical.

Tutto ciò per dire che sì, ci sono generi che sono immortali. E poco importa che siano musical, musicarelli e derivati, se si balla, canta e ci si strugge d’amore – ma non solo – il successo è assicurato. E non devono neanche essere capolavori alla Singing in the Rain, possono anche essere quei prodotti dignitosi e divertenti che in Italia hanno spopolato tra Rita Pavone e Gianni Morandi vari, e così ben raccontati da Steve Della Casa nel bel documentario portato al Torino Film Festival, Nessuno ci può giudicare.

Musica e immagini in movimento si sono sempre sposati per amore e interesse, capaci, nella migliore delle ipotesi, di divenire fenomeni di costume, pensate solo a Grease e a ciò che ha fatto allo stile estetico occidentale, soprattutto nel trucco, parrucco e giacchetti di pelle. E, non di rado, di ricostruire il cinema d’intrattenimento, l’industria e neanche troppo incidentalmente dando spunti al cinema d’autore. A volte come ispirazione – pensate a Tony Manero di Larrain – altre, come il fenomeno La La Land, come sguardo verso un sogno rimasto tale, una delicata carezza a ciò che vorremmo essere stati e non saremo mai. O potremmo essere ma non riusciremo, per scarso tempismo. Sempre, ovviamente, con due visi, due voci, due innamorati, perché son quelli gli ingredienti migliori, insieme a qualche scena corale (o di massa, se sei a Bollywood). O forse no, se pensiamo a Sing, animazione tecnicamente elementare e lontana anni luce dalle raffinatezze autoriali di Pixar e soci, ma delizioso nel suo essere perfetto nei ritmi narrativi, musicali (ovviamente), interpretativi.

Il motivo è squisitamente banale. Il musical tira fuori il meglio di tutti. Di registi, attori e di tutto il cast tecnico. Non può che essere meno che perfetta un’opera che si ascrive a tal genere, altrimenti rovina su se stessa, diventa parodia, patetico anacronismo. Devi avere talento, essere bravo, saper fare tutto o volerlo disperatamente imparare, come ha fatto Cameron Diaz in Annie, bell’esperimento di un remake di un cult di John Huston con Jamie Foxx e diretto da Will Gluck, con Will Smith e Jay-Z. Musical cinico, genere raro. Da noi arriverà a luglio, ma nel frattempo potete godervi una citazione capovolta della scena del divano già citata, nel trailer.

Tira fuori, però, anche il meglio degli spettatori, che si sentono nudi di fronte alla loro capacità di entrare in una favola, di farsi cullare dalle note e di pretendere, allo stesso tempo, un alto grado di professionalità (cosa che da tempo non chiedono più alle commedie).

Il musical non perdona, ma neanche tu perdoni lui. È sopravvissuto laddove altri, che sembravano più forti – come il western – hanno abdicato, ha attraversato i decenni, i disastri economici e creativi di Hollywood, non si è fatto neanche abbattere da Madonna in Evita. Se entra in crisi se ne sta silente, aspetta un Baz Luhrmann e torna in auge. Oppure trova una Emma Stone e una faccia da schiaffi come Ryan Gosling e non ce n’è per nessuno. E quando tutto va male, l’animazione ha sempre posto per lui. Per non parlare dei teatri di Londra, che a peso d’oro offrono adattamenti e musical originali, quando, non raramente, addirittura ci si trova di fronte all’andata e ritorno: piéce teatrale che diventa film e torna tale. Perché tutti vogliono sorridere, commuoversi, battere il ritmo mentre si entusiasmano di fronte a uno schermo e a un palco. E ancor di più negli ultimi anni in cui la musica nelle sale cinematografiche (ri)trova spazio: i concerti in diretta e non, i documentari musicali con uscite evento di uno o tre giorni, i docubiopic (come quelli su Vasco e Ligabue) su singole star o movimenti.

Sempre nel 2017 vedremo Welcome to Death Row, sull’etichetta che portò l’hip-hop si Tupac Shakur, Snoop Dogg e il fondatore Dr. Dre sulla cresta dell’onda. E che dire di Kiss & Cry, che racconta la storia vera di Carley Allison, pattinatrice e danzatrice, vicenda che tra cinema e teatro ha percorso una strada ancora nuova per il genere, in un dramma patinato e verissimo, come lo è, pur con uno stile diversissimo, 48 hours to live, dove il modello “musiche onnipresenti e grandi danze coreografate” la fa da padrone. C’è anche Pitch Perfect 3: ormai con il suo collaudato stile alla “bandslam” al femminile è diventato un cinefranchise collaudato (se vi chiedete quale fosse il primo, da noi arrivò col titolo Voices).

E se guardiamo già al 2018, il remake A Star is Born vedrà Lady Gaga sullo schermo – ma prima sarà Donatella Versace in tv – e Bradley Cooper coprotagonista e regista. Perché il musical attrae gli assi, soprattutto con l’usato sicuro. E vale la pena citare alla fine The Greatest Showman, con Hugh Jackman e Zac Efron (che molto deve al genere musical teen in tv, causa del successo di troppe star poco meritevoli) a raccontare P.T. Barnum. Proprio nell’anno dell’annuncio della chiusura del grande circo che porta il suo nome.

Non vi sarà sfuggito che in Italia, di musical, abbiamo solo la tradizione teatrale e, appunto, i musicarelli. Ma dopo aver sdoganato supereroi e macchine con Mainetti e Rovere, contiamo su un nuovo tabù da sfatare. Come protagonista, suggeriamo Anna Foglietta, voce clamorosa. Come regista, ovviamente, Nanni Moretti, che potrebbe farle fare la pasticciera trotzkista (e riguardate Palombella Rossa: più musical di così!).

 

 

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