Arriva la stagione finale di ‘In Treatment’: da urlo | Rolling Stone Italia
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La stagione finale di ‘In Treatment’ è da urlo

Sergio Castellitto, Margherita Buy, Giovanna Mezzogiorno e un cast stellare: l'ultima stagione della serie incentrata sulla psicanalisi del dottor Mari si preannuncia come un appuntamento da non perdere

La stagione finale di ‘In Treatment’ è da urlo

La psicanalisi, la recitazione, il sacerdozio. Hanno in comune il fatto che siano “gesti psichici e confessionali” come sottolinea con la solita arguzia Sergio Castellitto. Hanno in comune, però, anche la terza e ultima stagione di In Treatment. «E’ l’ultima perché certe cose le senti dentro, dentro la pancia, e abbiamo capito che si era chiuso un ciclo. Che non si poteva né doveva andare avanti, che andava bene così», queste le parole del direttore delle produzioni originali di Sky Italia Nils Hartmann, chiosate da Andrea Scrosati, vicepresidente cinema, intrattenimento e news del broadcast attualmente più creativo nell’audiovisivo in Italia. «Non si può fare tv pensando che a guardarla siano degli imbecilli, perché non lo sono. Devi finire quando hai ancora qualcosa da dire, non spremere il limone fino a distruggerlo come si è sempre fatto».

E così, alla fine dei 105 episodi – quest’ultima stagione di In Treatment ne conterà 35 come le altre, subito disponibili On Demand da sabato 25 marzo (chi vorrà potrà seguirli tradizionalmente da sabato 25 marzo alle 21.15 su Sky Atlantic, a botte di cinque puntate a settimana, o nei giorni feriali con la solita fruizione orizzontale e verticale, ogni giorno un paziente) – si rimarrà, siatene sicuri, con il desiderio di averne ancora.

Perché se la presentazione alle Officine Farneto, con un primo montato di 50 minuti incentrato sul dottor Giovanni Mari (Castellitto) alle prese con la sua nuova terapeuta (Giovanna Mezzogiorno), ci ha detto qualcosa, è che questa stagione sarà da urlo. Perché ne sentiremo, probabilmente, ma in particolare avremo pianti ed emozioni forti, e perché a volte un prodotto televisivo ti squarcia dentro. Succede quando la scrittura di una serie è così tesa e profonda e la sua regia, fatta di campi, controcampi, lunghi piano sequenza, anime ruvide e dolenti, ti offre uno sguardo altro, quello di Saverio Costanzo, che mai si accontenta della soluzione più facile.

Perché In Treatment ha due “pazienti”: quello che sta sul divano dello studio di un professionista dell’ascolto e indagatore dell’animo umano, e lo spettatore, che è terzo solo per la distanza fisica, ma non certo per il coinvolgimento emozionale.

Margherita Buy e Sergio Castellitto. Foto di Camilla Morandi – Corbis/Corbis via Getty Images

In Treatment nella sua versione italiana – «La migliore, senza dubbio», parola di Hagai Levi, l’inventore geniale di questo format nato e cresciuto nella fertile tv israeliana (il cui titolo originale è Be Tipul e ha avuto solo due stagioni, non tre come negli Usa e qui da noi): «Ma non chiamatelo così, è la storia del suo protagonista»- ti arriva in fondo all’anima, senza scorciatoie, ti propone storie forti, senza enfatizzarle, ti inchioda in quello studio, nella posizione più scomoda. Merito del trio di sceneggiatori forse più interessanti del nostro panorama televisivo cinematografico, ormai anche showrunners all’americana: Ludovica Rampoldi, Alessandro Fabbri e Stefano Sardo, qui coadiuvati da Ilaria Bernardini e con Giacomo Durzi e Nicola Lusuardi (anche supervisore editoriale) a tenere le fila della linea originale di narrazione. Merito di una Wildside che con Sky ha trovato un matrimonio capace di regalare gioielli come questo, ma, senza togliere meriti a nessuno, il merito è soprattutto di attori capaci di prove straordinarie, per talento e resistenza fisica.

«Sono arrivati anche a 35 minuti di piano sequenza, per non interrompere il filo di un racconto particolare, e questo può accadere solo con grandi interpreti e grazie a lunghe prove, così che sul set gli attori arrivino quasi ad autodirigersi», rivela Saverio Costanzo, qui affiancato alla regia da Edoardo Gabriellini che confida: «Entrare in una serie come questa è come trovarsi dentro un ballo in cui la coreografia è perfetta e tu devi essere capace di esserne all’altezza».

Tra loro, il filo rosso della serie, il dottor Mari, è un monumentale Castellitto, che tiene a freno quel talento istrionico e totale per giocare in sottrazione, con gesti e toni di voce modulati per ogni paziente e, a momenti, sembra quasi per ogni spettatore. Peraltro in questo episodio in cui si sfida in un minuetto d’alto livello con Giovanna Mezzogiorno – bravissima nel tenergli testa, senza snaturarsi, e nel riempire di senso e di sentimento un ruolo difficile – intuiamo che il nostro (anti)eroe è in una crisi profonda, personale, professionale.

Sa sinistra: Edoardo Gabbriellini, Margherita Buy, Sergio Castellitto, Saverio Costanzo, Brenno Placido, Giulia Michelini, Domenico Diele. Foto di Matteo Nardone/Pacific Press/LightRocket via Getty Images

Tutto viene messo in discussione, in primis la psicanalisi, e seppure sentiamo la mancanza di attori come Guido Caprino, Maya Sansa, Valeria Golino, Irene Casagrande – ma è una lista privata, di ogni spettatore questa, perché si lega ai singoli “casi” e a quanto ti siano entrati dentro – nessuno li fa rimpiangere. Non Margherita Buy, sensibile e persino dolorosamente leggera nell’interpretare l’attrice di successo in declino e in attesa di rilancio Rita Romano (la paziente del lunedì); non Domenico Diele, che nasconde dietro la sua tonaca da sacerdote il ghiaccio bollente che già avevamo apprezzato in ACAB e 1992 (martedì); non Brenno Placido, sorprendente in un adolescente gay e inquieto, alle prese con una crisi d’identità che va oltre la sua identità sessuale (mercoledì); non Giulia Michelini, forse la più potente e spiazzante perché la più apparentemente normale, donna intrappolata in una vita che non sente sua ma che rifiuta di respingere, perfetta nella sua claustrofobia di periferia (giovedì); non, infine, Giovanna Mezzogiorno, che all’aggressivo, carismatico Mari risponde con decisa dolcezza, accogliendone il dramma e il suo andare in pezzi. Ed è l’unica, insieme a Castellitto, a reggere la prova più difficile per un attore, soprattutto in un contesto come questo: il piano d’ascolto.

Tutto ciò, come dice Gabriellini, in una coreografia curata in ogni dettaglio, dalla fotografia di Fabio Cianchetti al montaggio di Francesca Calvelli, solo apparentemente classico ma in realtà delicato e rarefatto, dalla scenografia di Luca Merlini (a volte basta un cuscino, per cambiare il senso di una scena) ai costumi di Antonella Cannarozzi, che sui pazienti mette sempre il vestito giusto.

Ora, mettetevi comodi. Accendete la tv. E vedrete che alla fine, o forse già a metà, vi ritroverete in pizzo alla vostra poltrona, più nudi di quando avevate iniziato la puntata. Perché lo sguardo umano e spezzato di Mari, quello combattuto e intrappolato dei suoi assistiti, è anche il vostro. E’ anche il nostro.

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