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I 100 film degli anni Novanta da non perdere (100-80)

Slacker e serial killer, "Fight Club" e "Pulp Fiction": le commedie, i thriller, gli horror e i film drammatici più rilevanti degli anni '90

Ah, gli anni Novanta. Il decennio che ci ha dato film indie destinati a diventare dei tormentoni ed effetti speciali alla Matrix, fight club e commessi sboccati per via di Kevin Smith, serial killer cannibali e carismatici e slogan come “Scegli la vita!”, tizi competitivi dalla Rushmore Academy e “Royal con formaggio”. Ripercorrendo i film che hanno reso gli anni Novanta un decennio sorprendentemente fertile per i registi e gli appassionati di cinema, si intuisce presto che le basi del cinema degli ultimi anni sono state poste proprio in quella fase, dall’ascesa dei documentari come fenomeno mainstream ai tocchi meta che hanno trasformato opere che mescolano generi vari in musei delle cere parlanti. Il Sundance ha fatto per i registi indipendenti quello che Seattle ha fatto per i musicisti grunge. Era un periodo in cui andavamo in giro con fannulloni e tossicomani scozzesi, criminali dalla lingua di velluto e tizi che sapevano stare alle regole. Potevamo essere cyberpunk da morire. Sapevamo cose di kung fu.

E così abbiamo messo insieme una squadra di fanatici di cinema, avvoltoi della cultura, esperti di cultura pop e critici vari per stabilire i cento film migliori degli anni Novanta. Dai vincitori degli Oscar a piccole gemme dimenticate, dalle saghe di non fiction a sfondo sociale a sette ore di capolavori ungheresi, da Titanic a Tarantino. Sono questi i film che abbiamo citato senza posa, che ci hanno fatto litigare e ai quali continuiamo a pensare. Uscite dalla cabina telefonica, stappatevi una gazzosa e date inizio alle danze.

100. “Romeo + Juliet”(1996)

Shakespeare andava fortissimo negli anni Novanta, dalla bisbetica riot grrrl in Dieci cose che odio di te a Keanu nel ruolo del principe Hal in Belli e dannati. Ma Baz Luhrmann ha davvero reso il Bardo orgoglioso con il suo film dal taglio MTV su gli innamorati dal destino avverso, acciuffando due degli attori emergenti più ricercati del decennio: Claire Danes, reduce dalla serie My So-Called Life, e Leonardo DiCaprio faccia d’angelo destinato a diventare una superstar di lì a breve. La tragedia viene ripensata come un pulp con tanto di pistole, droghe, piscine, slang da gang californiana, ali da angelo, sguardi da cerbiatto attraverso l’acquario e una colonna sonora che è diventata iconica quanto il film. RS.

99. “Clerks – Commessi”(1994)

Girato in bianco e nero sgranato e vagamente ispirato alla vita del regista Kevin Smith a quei tempi, questo film privo di budget segue le avventure di un commesso in un drugstore (Brian O’Halloran) e il suo migliore amico impiegato in un videonoleggio (Jeff Anderson), nel corso di una singola giornata. Clerks cattura sia la banalità del prestare servizio al cliente sia una stranezza stronzo-vérité destinata a diventare un format per i film degli anni Novanta. Tanto per farsi una risata, Smith ci butta in mezzo una coppia di scoppiati (ciao Jay e Silent Bob!) che diventeranno una pietra miliare nell’universo cinematografico del regista. Tra il commentario costante e sboccato su qualsiasi cosa che va da Star Wars ai peni, e con la sua capacità di tradurre il tedio grunge in maniera diretta, il debutto fai-da-te di Smith afferra il momento culturale post-Slacker e lo intrappola in un gioiello. AB

98. “Buffalo 66”(1998)

Un uomo nevrotico rilasciato da poco su cauzione (Vincent Gallo) rapisce una ballerina (Christina Ricci), costringendola a conoscere i suoi genitori, interpretati in maniera magistrale e folle da Ben Gazzara e Anjelica Houston. Lei sta al gioco, si finge partner innamorata, ed è l’unica che riesce ad andare oltre la sua apparenza psicotica per rinvenire il piccolo ragazzino traumatizzato. Uno dei film più divertenti sull’insicurezza maschile che siano mai stati fatti, la storia amour fou di Gallo diventa un ricognizione profonda sull’aridità di certi ambienti upstate New York, e riflette la maestosità lunatica del suo creatore, oltre all’idea che amare significa dover dire sempre mi dispiace. La dichiarazione delirante nel negozio di ciambelle è indimenticabile. SB

97. “Tempesta di ghiaccio”(1997)

La sottocategoria di film in cui ricchi genitori dei sobborghi rivivono i propri fallimenti attraverso la lente d’ingrandimento prestata dai figli era affollatissima negli anni Novanta, ma una nota di merito va ad Ang Lee per aver adattato il libro di Rick Moody con una delicatezza e introspezione rara. Una famiglia del Connecticut, capeggiata dal fedifrago Kevin Kline e una fragile e amareggiata Joan Allen, cerca di arrivare viva al Ringraziamento del 1973, mentre i figli della coppia iniziano a mangiare la foglia, la rivoluzione sessuale è in corso e sta creando danni collaterali, e il paese scivola nello scandalo di Watergate. La tragedia sul finale è davvero commovente, come un’elegia per la perdita di innocenza dell’America. BT

96. “Il giardino delle vergini suicide”(1999)

Volete sopravvivere all’adolescenza? O meglio, all’età adulta? Allora guardate questo memento mori tragico e giocoso sulle sorelle Lisbon, un quintetto di adolescenti del Michigan negli anni Settanta che gettano un incantesimo sulla loro cittadina dopo che la più piccola muore impalata sul cancello di casa, ispirando le altre sorelle a fare una fine simile. Sono i ragazzi del vicinato a soffrirne davvero, feticizzando quello che le ragazze hanno lasciato alle spalle (cartoline, riviste di viaggio, pagine di diario) per trasformare il ricordo in una forma di comprensione. Il seduttivo debutto cinematografico di Sofia Coppola, basato sul romanzo di Jeffrey Eugenides, ne ha lanciato la carriera unica, devota ai film in cui i personaggi sono prigionieri delle circostanze. SG

95. “Orlando”(1995)

L’adattamento del romanzo di Virginia Woolf in cui un gentiluomo dell’era Elisabettiana apparentemente immortale si trasforma in una donna verso la mezza età, è stato una delle prime occasioni degne di nota per mettere in risalto il carisma di Tilda Swinton, che pare venire dall’altro mondo. Poeta dall’animo romantico il cui spirito trascina prima lui e poi lei, l’Orlando di Swinton non appare come un uomo nella prima metà del film, ma come qualcuno che trascende dal genere dall’inizio alla fine. La regista Sally Potter rifinisce questa performance destinata a segnare la carriera di Swinton inserendola in una meditazione creativa, libera e accessibile sulla mascolinità, la femminilità e il tempo. JB

94. “Singles – L’amore è un gioco”(1992)

Prima che un gruppo di newyorchesi caffeinomani assidui del Central Park trasformasse le vite sentimentali della Generazione X in qualcosa da non perdere in TV, la rom-com corale di Cameron Crowe ha ritratto le frequentazioni dei ventenni nel mondo pre-Tinder e post-Nevermind. Campbell Scott e Kyra Sedgwick fanno gli adulti della situazione mentre il Jim-Morrison-in-camicia-di-flanella di Matt Dillon è diventato il simbolo perfetto e allo stesso tempo la parodia dello stile di vita slacker nell’America nord-occidentale. Tra le altre cose, è il film che ha fatto perdere la testa a un sacco di gente per Bridget Fonda. Singles documenta con maestria il movimento musicale più duraturo del decennio: fortificato da una colonna sonora instant classic con Pearl Jam, Alice in Chains e Soundgarden, prevedeva anche degli inserimenti da solista di Chris Cornell. Il film è una specie di capsula del tempo, il Tramonto dell’Occidente della scena grunge. DK

93. “Billy Madison”(1995)

Prima che il cinema di Adam Sandler diventasse sinonimo di battute da bomber, l’ex star del Saturday Night Live ci ha lasciato una lezione di recitazione magistrale in questa commedia su un uomo mai cresciuto. È la storia genuinamente strana e contorta di un tontolone ricco e viziato che per restare tale deve cimentarsi con l’impossibile, cioè rifare tutti gli anni tra l’asilo e il liceo a tempo di record. Ne esce un Adam Sandler in tutta la sua gloria mentre lotta contro pinguini altissimi e organizza un musical scolastico in stile operistico; l’attore non sarà mai più così sopra le righe ed esilarante a trecentosessanta gradi. Nel film, inoltre, appare una grandiosa competizione scolastica che si conclude con la frase: “Non ti darò alcun punto, e che Dio abbia pietà della tua anima”. DF

92. “I soliti sospetti”(1995)

“La beffa più grande che il diavolo abbia mai fatto è stato convincere il mondo che lui non esiste” Così dice l’untuoso Kevin Spacey all’irritabile poliziotto (Chazz Palmintieri) durante un interrogatorio molto teso che costituisce lo scheletro dell’indimenticabile secondo film di Bryan Singer. Kevin Spacey ha vinto il suo primo Oscar per il ruolo del piccoletto in un quintetto di criminali costretti a eseguire un colpo senza speranze per conto di un misterioso cattivone, il leggendario Keyzer Soze. Ma il film è pieno di personaggi interpretati da attori all’apice della forma, tra cui Gabriel Byrne, Benicio Del Toro, Pete Postlewhite e Giancarlo Esposito. E il twist finale dà sempre una scossa. GM

91. “Stella solitaria”(1996)

“Dimentica Alamo”: non solo la frase finale del miglior film del regista e sceneggiatore John Sayles, ma anche una sintesi abbastanza netta di come la storia possa essere un fardello che schiaccia le persone. Chris Cooper interpreta un mellifluo sceriffo texano intento a investigare su un omicidio vecchio di decenni, il che lo costringe a confrontarsi con l’eredità di suo padre (Matthew McConaughey), vecchio tutore della legge amatissimo dalla comunità. Intrecciando in maniera fluida il presente con i flashback del passato, la rievocazione dei giorni andati di Sayles dimostra come il passato non sia mai davvero tale. È stato uno degli apici del cinema indipendente degli anni Novanta: intelligente, sobrio, romanzesco e politicamente acuto. TG

90. “Scemo & più scemo”(1994)

Prestazioni di comicità fisica incessanti da parte della stella promettente del cinema Jim Carrey e un Jeff Daniels dai capelli paglierini, in questo classico della commedia scurrile – pieno di citazioni da mandare a memoria – girato da Bobby e Peter Farrelly. Parla di due fratelli idioti alle prese con un road trip lungo il paese dentro a furgone a forma di cane; sono intenti a restituire una valigetta piena di soldi. Un apice della commedia lowbrow degli anni Novanta, in cui scherzi a base di lassativi, bottiglie di birra piene di pipì, oltre a snervanti cori su “Mockingbird“, vengono citati da milioni di fan ancora oggi. Il perché questo accada grazie a un film incentrato su una coppia di idioti è semplice. È perché ci piacciono. Ci piacciono molto. AS

89. “Il lungo giorno finisce”(1992)

Un undicenne di nome Bud (Leigh McCormack) cresce nella Liverpool del dopoguerra, spostandosi da casa a scuola e dalla parrocchia al cinema. Tutti ambienti tenuti insieme in maniera meravigliosa da una prospettiva dall’alto, sotto la colonna sonora di Tammy di Debbie Reynolds. Stracarico di musicalità, sentimento e composizioni eleganti, questa meraviglia autobiografica di Terence Davis – il maestro inglese della nostalgia satura di conflitto – scava nel passato alla ricerca di una bellezza tornita e un trauma indimenticabile. EH

88. “Casinò”(1995)

L’ascesa e la caduta dei gangster che hanno trasformato Las Vegas in una macchina per fare soldi violenta e manovrata dalla criminalità organizzata, con una colonna sonora che comprende tanto Louis Palma quanto brani rock & roll a tutto volume. È possibile che un film di Scorsese sia più Scorsese di così? Come Quei bravi ragazzi ma con più sfarzo, lo sguardo del regista su un impero basato sul crimine e la paranoia si avvale di quasi tutti i suoi tratti distintivi: è come se Marty avesse fatto spesa in un colpo solo, portando a casa la rabbia di Robert De Niro, Cosa Nostra, le canzoni dei Rolling Stones, una sceneggiatura di Nicholas Pileggi, pezzi incredibili di steadicam e una scena cruenta con Joe Pesci. Più una Sharon Stone da Golden Globe nel ruolo di una femme fatale che distrugge una “cosa buona” nel deserto e a momenti fa crollare tutta la Sin City. DK

87. “Velvet goldmine”(1998)

Sin dai credit di apertura che ritraggono un gruppo di ragazzini inglesi vestiti in maniera sgargiante e glam mentre corrono per la strada sulle note di Needles in the Camel’s Eye di Brian Eno, si capisce che l’omaggio al glam degli anni Settanta di Todd Haynes è un’opera di pura gioia. Raccontato stile Quarto Potere attraverso un giornalista (Christian Bale) che cerca di acciuffare una figura alla David Bowie di nome Briand Slade (Jonathan Rhys-Meyers) anni dopo il suo trionfo nelle classifiche, il film rimesta nel glitter e la mitologia che hanno caratterizzato una stagione conclusa del rock, facendone un emblema del Nuovo Cinema Queer. KYK

86. “A brighter summer day”(1991)

Questa lunga e variegata lezione di storia del regista taiwanese Edward Yang racconta due storie parallele: la prima è incentrata sulle gang giovanili di strada negli anni Sessanta a Taipei, mentre la seconda segue le vicende di una famiglia che fatica a mantenere il proprio modesto stile di vita in circostanze difficili. Al centro c’è un giovane ribelle (Chang Chen) che si innamora della fidanzata del leader di una gang rivale, con esiti tragici. Quest’epica intima e di grande respiro riesce a filtrare la storia universale dell’adolescenza attraverso un contesto politico instabile, in modo tale che il film sia strettamente legato al suo contesto culturale ma anche completamente staccato dal tempo. VM

85. “Titanic”(1997)

Un hippie, un feticista macho, un nerd fissato con la tecnologie: James Cameron può essere ognuna di queste cose. E con questa tragica storia d’amore ambientata su un transatlantico destinato a fracassarsi contro un iceberg, ha dimostrato di saper parlare bene anche la lingua degli adolescenti. Certo, gli straordinari effetti speciali e le scene in cui il caos viene coreografato alla perfezione riescono a riprodurre cosa succede alla nave che affonda con una fedeltà impressionante. Ma un’intera generazione di appassionati di cinema ancora prova dei sentimenti per il mega-blockbuster di Cameron perché il regista ha creato una storia d’amore genuina e credibile tra due ragazzi. Leonardo DiCaprio e Kate Winslet erano gli attori perfetti per la parte, a cavallo tra la fama degli anni giovanili e la vita adulta, capaci di trasmettere un amore fresco e libero dalle convenzioni quanto una disperazione sincera e profonda. I signori vengano per uno spettacolo mozzafiato, e restino per la tenerezza senza fine di molte scene. BE

84. “Swingers”(1996)

Il debutto alla sceneggiatura dell’attore Jon Favreau è una meditazione acuta sull’essere un perdente. Un aspirante attore senza fortuna (Favreau) è ancora fissato con la ragazza che lo ha mollato quando ha lasciato New York City per Los Angeles. I suoi amici dalla lingua svelta – Ron Livingston e Vince Vaughn nel suo primo ruolo importante – cercando di rallegrarlo con un viaggetto a Las Vegas e raduni senza fine tra compagnoni alternativi. Pare che non funzioni nulla. Poi incontra una donna (Heather Graham) a cui piace ballare lo swing. La sensibilità DIY del film, i dialoghi originali e le interazioni scherzose tra l’ammorbato Favreau e un Vaughn alla ricerca del divertimento costante, hanno reso Swingers una pietra miliare degli anni Novanta, qualcosa di prezioso che non sa bene di esserlo.

83. “Last Night”(1998)

Benvenuti nell’apocalisse più canadese della storia. Il mondo è destinato a finire a mezzanotte per colpa di una misteriosa catastrofe ambientale. Alcuni pregano, altri ballano; altri ancora si danno alle rivolte per strada. Ma quasi tutti sono gentili e cortesi fino allo stremo: il manager di una compagnia energetica di Toronto trascorre le ore prima della fine a chiamare i clienti per rassicurarli che la corrente resterà accesa (si può essere più canadesi di così? Il manager è interpretato da David Cronenberg). Il film è una piccola gemma realizzata dallo sceneggiatore e regista Don McKellar (già alle prese con la sitcom di culto Twitch City) che – insieme alle allora sconosciute Sandra Oh, Sarah Polley e Genevieve Bujold – cerca di trascorrere le ultime ore sulla Terra alla ricerca di qualche contatto umano prima che sia troppo tardi. RS

82. “Lanterne Rosse”(1991)

Con il film definitivo della “Quinta generazione” del cinema cinese, Zhang Yimou ha realizzato una favola colorata e caustica sulle tracce di una giovane donna (una Gong Li da togliere il fiato) che preferisce diventare la cortigiana di un uomo ricco piuttosto che la moglie di un povero, prima di rendersi conto che una gabbia dorata è pur sempre una prigione. Oltretutto, diventare la “quarta moglie” implica il rischio di incappare nelle ire delle altre amanti che lottano per ogni briciola sul tavolo. Una storia che inchioda lo spettatore basata su una donna intelligente che soffoca per il peso delle convenzioni sociali, e la prova che Zhang e la sua musa sono stati uno degli abbinamenti regista/attrice più importanti del decennio: un Von Sternberg e una Dietrich per i tempi moderni. SB

81. “Election”(1999)

Scegli Flick! Tracy Flick, una studentessa indomita e insopportabile interpretata da Reese Whiterspoon, è determinata a vincere le elezioni studentesche nel suo liceo di Omaha. Mattew Broderick è un professore di scienze sociali che decide di metterle i bastoni tra le ruote, convincendo l’atleta popolare di turno (Chris Klein) a candidarsi contro di lei. Tresche clandestine, raggiri politici e una puntura d’ape dall’aspetto dolorosissimo hanno fatto diventare questa black comedy di Alexander Payne un successo per la critica. La sceneggiatura vivace e sovversiva, scritta da Payne insieme al collaboratore di lunga data Jim Taylor in base al canovaccio fornito dal romanzo di Tom Perrotta, ha ottenuto una nomination all’Oscar. Ovviamente qualsiasi somiglianza tra i protagonisti del film e i politici veri è solo una coincidenza. GM

80. “Paura e delirio a Las Vegas”(1998)

Solo Terry Gilliam poteva tradurre le cronache gonzo di Hunter S. Thompson in un adattamento caotico e caleidoscopico; un’elegia per la Summer of Love alimentata dalla mescalina ma anche un presagio inquietante di Watergate. Johnny Depp interpreta alla perfezione il grande giornalista scomparso; il suo “Raoul Duke” vacilla lungo lo strip di Las Vegas e sniffa una bandiera americana intrisa di etere, mentre il pazzo avvocato incarnato da Benicio Del Toro fa da Bonnie al nostro Clyde nelle vesti di guida turistica imbottita di acidi. Il film ha un epilogo bizzarro: sette anni dopo l’uscita al cinema, Depp è stato tra quelli che hanno sparato le ceneri di Thompson da un cannone durante il funerale dello scrittore. DK

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