"Ho portato gli attacchi di panico a Roma nell'88", intervista a Valerio Mastandrea | Rolling Stone Italia
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“Ho portato gli attacchi di panico a Roma nell’88”, intervista a Valerio Mastandrea

Dopo il successo di botteghino di “Perfetti sconosciuti”, incontro con l’attore di “Fiore” e “Fai bei sogni” che per il 2017 ha un progetto: la regia

“Ho portato gli attacchi di panico a Roma nell’88”, intervista a Valerio Mastandrea

Quando lo incontro a Cannes, Valerio Mastandrea è già pronto, da lì a qualche ora, per ripartire. Per poi tornare la settimana dopo. Già, ché due sono i film del festival dove recita, due pellicole molto diverse tra loro – Fai bei sogni di Marco Bellocchio e Fiore di Claudio Giovannesi – e ancor di più da quel Perfetti sconosciuti di Paolo Genovese, quasi 20 milioni d’incasso («In pratica la somma di quanto hanno guadagnato tutti i film che ho fatto») di cui è uno dei protagonisti. Per uno che arriva da un 2015 da produttore del film di Caligari e ha in mente di fare – l’anno prossimo! – il suo primo film da regista, questo 2016 da attore è davvero… Come potremmo definirlo? «Quello che ho fatto quest’anno è esattamente quello che vorrei vedere. Se un film commerciale come Perfetti sconosciuti è più forte di un film come Fiore, deve prendersi la responsabilità di permettere che vengano fatti cinque Fiore all’anno. Questo deve essere il mercato, ci deve essere tutto, ce lo insegnano anche i francesi. Vorrei che chi ha visto il film di Genovese vedesse anche quello di Giovannesi.

In Fai bei sogni sei Massimo Gramellini. Non sarà stato facile interpretare uno che becchi scanalando in tv.
Quando Bellocchio mi ha chiamato chiedendomi di fare un film tratto dal libro (Fai bei sogni) e che parlasse di Massimo in questa maniera, gli ho chiesto: ma come ti è venuto in mente? E non solo perché sono non sono torinese o per differenze anche fisiche, di aspetto. Bellocchio poi mi ha detto che sarebbe stata la storia di Massimo, e non lui in quanto personaggio, la protagonista del film. Mi ha chiamato perché è una storia che vuole parlare di sofferenza e di accettazione dell’inaccettabile e pensava che io avessi delle caratteristiche giuste per portare in scena quella roba lì. Questa te l’ho detta in una versione buona. Ieri Marco e io stavamo facendo un’intervista e, alla domanda sul perché mi avesse scelto, lui – di un candore disarmante, è pericoloso perché senza filtri – ha risposto: “Perché il ragazzo – cioè io – mi sembrava che portasse con sé una malinconia, una tristezza, nonostante la sua vita sia stata felice”. È stata? Quindi possiamo smettere? Ora basta felicità? (Ride).

Ci ha azzeccato, nella sua intenzione, Bellocchio?
Bellocchio ha visto questa mia peculiarità nel dare introspezione e umanità, anche senza volerlo. Ed è una caratteristica di cui vorrei anche poter fare a meno in futuro. Mi sono rotto il cazzo, quelli sono ruoli complessi a cui ho dato tantissimo, e ora vorrei tanto fare un personaggio bidimensionale, piatto, buono o cattivo è uguale. Ma lì ci vuole tanta tecnica, io faccio fatica a mettere distanza tra me e il personaggio che interpreto.

Gramellini l’hai incontrato solo quando sei andato ospite da Fazio?
Nella fase di preparazione e realizzazione del film io non ho letto il libro né ho voluto parlare con Massimo. Anzi, mentre giravamo, una sera l’ho incontrato a cena e gli ho detto: “Oh, guarda che non sto facendo te!”. Non per motivi personali, è che non sono capace a fare l’attore a quella maniera. Anche l’obiettivo di Bellocchio era questo: non affidarsi al personaggio del libro, ma alla storia che è un gioiello nella sua drammaticità!

Quanto ci hai messo di tuo fuori sceneggiatura? La scena dell’attacco di panico è roba tua?
Io ho portato gli attacchi di panico a Roma nell’88 (ride) e sono stato anche uno dei primi a scoprire che non esistono.

Basta attacchi di panico, quindi?
Fino alla nascita di mio figlio, uno dei problemi principali del mio lavoro, è stato proprio questo: usare il mestiere di attore per tirare fuori cose e vivere cose che nella vita vera avrei fatto fatica ad affrontare. Nel momento in cui ti arriva l’amore di un figlio, che è un amore che non chiede definizioni, allora cominci a sgretolarti e a entrare finalmente in contatto con le emozioni. Oggi è arrivato il momento in cui il mio lavoro d’attore mi serve meno. Ecco perché farò il film da regista adesso. Ho dato a questo lavoro 23 anni e mi ha restituito 23 anni di servizio, poi arriva la vita, quella vera e nuova…

Da attore hai fatto scelte diverse in questo periodo: lavorare con un Real Madrid di attori bravi e noti in Perfetti sconosciuti e poi girare al fianco di giovani attori poco noti in Fiore.
Già, Fiore è come il Crotone neo promosso! Io con quel Crotone, con i film di Giovannesi, ci vorrò giocare tutta la vita. Lì respiri la forza e l’entusiasmo del fare un cinema usato come arma di lotta. Anche con Bellocchio respiri ’sta cosa, perché lui è – nonostante anni di carriera – il più esordiente di tutti, quando sta sul set. Tutti i suoi film sono un’opera prima per la voglia e l’entusiasmo che ha di farli. Come se ogni volta avesse vent’anni.

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