Cosa ne pensa uno psicologo di 'Tredici'? | Rolling Stone Italia
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Cosa ne pensa uno psicologo di ‘Tredici’?

Abbiamo fatto vedere a uno psicologo giuridico esperto in comportamenti devianti minorili la serie TV di Netflix? Funziona? È realistica?

tredici

Da quando Netflix ha fatto la sua comparsa, rivoluzionando per sempre il nostro modo di intendere la serialità, tutti abbiamo esultato per l’approdo nella El Dorado del binge-watching. Non dovevamo aspettare più settimane intere per la prossima puntata, sapevamo finalmente come occupare i ponti e i weekend post settimana lavorativa. L’effetto si è fatto sentire anche sui produttori stessi delle serie, non più costretti al colpo finale ad effetto per tenere sulla corda lo spettatore, nella posizione cioè di lavorare come meglio credevano. Netflix e il binge watching sembravano, insomma, l’evoluzione finale delle serie TV.

Se c’è però un aspetto negativo nel farsi risucchiare, anche emotivamente, in una storia è quello di perderne il fuoco, gettare al vento qualsiasi razionalità critica e provare solo emozioni. Una cosa anche bella, ma che rischia di compromettere qualsiasi capacità di giudizio.

Mi è successo con Tredici, l’adattamento dell’omonimo libro di Jay Asher realizzato da Netflix – e prodotto da Selena Gomez – che ha battuto ogni record di popolarità in casa Netflix, diventando in poche ore virale su tutti i social. Tredici è la storia di Hannah Baker, una ragazza che prima di suicidarsi incide 13 lati di cassetta (7 nastri, uno con un lato vuoto) per spiegare i motivi del suo suicidio. Ogni lato è “dedicato” ad un suo compagno di scuola, ed equivale ad una puntata, nella quale vengono spiegate le colpe della persona in questione. Riviviamo la storia dal punto di vista di Clay, un semi-nerd innamorato di Hannah che decidere di non lasciarsi scivolare addosso la cosa ma di andare fino in fondo. È facilissimo empatizzare immediatamente con Hannah, nonostante il suo ruolo non sia così del tutto comprensibile, una volta arrivati alla fine.

La serie ha moltissimi pregi, e permette a tematiche che spesso non vengono troppo sviscerate di venire fuori. Si parla di bullismo, di cyber-bullismo, di stalking, di sessismo e di violenza, e lo si fa mettendo in scena 13 ore che si fanno guardare con fin troppa passione e voracità. In tanti infatti hanno augurato che la serie venisse trasmessa nelle scuole, ed hanno celebrato uno show che finalmente parlasse delle cose di cui sopra mettendone in evidenza soprattutto la crudeltà. La rielaborazione di Brian Yorkley, il produttore della serie, ci mostra tutto il male che i ragazzi riescono a farsi tra di loro e quanto passino spesso sotto traccia segnali inquietanti, public shaming, revenge porn oltre che la facilità con cui foto private finiscano online e col rovinare la vita di qualcuno.

Ho pensato tutte queste cose, sentito le ragioni di Clay più che di Hannah per buona parte dello show. Ho cercato di ricordare se avessi mai fatto qualcosa di simile a quella delle 12 persone coinvolte nello show, e sono stato un po’ male pensando che sì, forse siamo tutti un po’ simili a loro. Forse è vero che “dovremmo prenderci tutti più curi gli uni degli altri”, come dice Clay. Educare ed educarci maggiormente all’uso dei social network, responsabilizzare i nostri figli e inculcargli nella testa che ogni cosa che fanno ha delle conseguenze, che dire qualcosa di meschino non ha, semplicemente, nessun senso. E fa male.
Poi però, qualche giorno dopo la fine della serie, ho continuato a pensare a Tredici, ad Hannah e al modo in cui aveva affrontato la sua situazione. E allora ho chiesto a Leonardo Abazia (che come è intuibile dal cognome è mio padre) di riguardare alcune scene insieme, in quanto padre ma soprattutto in quanto psicologo giuridico esperto in comportamenti devianti minorili e autore di un libro sullo stalking.



(Per forza di cose, da questo punto in poi ci saranno degli spoiler)

Siamo partiti dalla scena a lui più affine, e cioè quando Clay si reca dallo psicologo (Mr. Porter) per raccontargli delle cassette. Contestualmente viviamo anche l’esperienza di Hannah, che sceglie proprio lo psicologo scolastico come ultima spiaggia, in uno dei momenti più duri della serie. Quando l’ho vista la prima volta, credevo che Mr. Porter avesse sbagliato più d’una cosa, che non avesse fatto nulla per trattenere Hannah, ossessionato dai suoi problemi domestici – che ci vengono mostrati qualche puntata prima. Leonardo Abazia (che da ora in poi chiamerò LA) invece mi descrive il comportamento di Porter come “globalmente” buono: «non ci sono grandi errori, né nella gestione della “seduta” con Hannah, né dopo, nella mancata comunicazione alle autorità. L’unico errore sta nel fare domande. Nello specifico dell’abuso il comportamento dello psicologo (Mr. Porter) è sbagliato, perché se non metti la persona a suo agio questa non parlerà mai. Devi sempre credergli, o comunque mostrare la fiducia, solo in questo modo riesci ad “agganciare” la vittima, e farla parlare. Altrimenti scatta lo stesso meccanismo auto-protettivo che hanno ad esempio i bambini quando gli si chiedono le cose troppe volte».

Tuttavia, il messaggio che passa dalla posizione di Mr. Porter sui nastri e dalla stessa sua situazione di disagio nei confronti di Clay è quasi di colpevolezza, come se dovesse in qualche modo sentirsi in colpa, come se avesse potuto fare qualcosa per fermarla. Si ricollega anche a questo un pezzo apparso su Babe, scritto da Serena Smith, e che è stato molto citato nelle ultime settimane. La Smith si scaglia contro la serie, colpevole di semplificare troppo il tema e soprattutto mancare di rispetto alle persone che soffrono di depressione. «Il suicidio», scrive la Smith, «non è causato dai bulli, il suicidio è causato da depressione o da un problema mentale. Hannah è descritta come tale? No». E in effetti nulla da l’impressione che Hannah sia depressa o soffra di qualche altro tipo di disturbo mentale. Certo, lo stupro subito nella penultima puntata la fa piombare in uno stato di disinteresse per la vita preoccupante. Tuttavia, anche secondo LA: «è vero che non sono solo i depressi a suicidarsi, e in questo la Smith sbaglia, ma è anche vero che è irrealistico pensare che il suicidio arrivi attraverso una semplice somma di cause. Ci si suicida quando non si ha nulla per cui vivere. Hannah aveva i suoi genitori che, seppur distratti, non hanno mai mancato di farla sentire utile». L’idea non è che il suicidio di Hannah sia esagerato – sarebbe ingeneroso dirlo – ma piuttosto la costruzione delle dinamiche che portano al suicidio lo sono.

La teoria della summa di casi è anche corroborata dalla recensione di Daily Beast, dove si legge: «Non ci vuole troppo a capire che tutti sono colpevoli in Tredici, che dipinge una cultura pervasiva di sessismo in cui potrebbero riconoscersi tutte le ragazze del mondo, è che dovrebbe essere respinta da qualsiasi ragazzo sano». Secondo LA c’è però una componente di pericolosità in questa lettura – che è indubbiamente una lettura giusta delle intenzioni degli sceneggiatori: «è pericoloso cioè che passi l’idea che il suicidio sia “accettabile” se generato dalla cattiveria degli altri. È pericoloso che si giustifichi una scelta del genere attraverso le azioni deprecabili degli altri». Proprio quell’atto finale, quel suicidio raccontato in maniera così cruda, senza sottofondo musicale, senza alcun tipo di filtro, è stato aspramente criticato un po’ da tutti, Organizzazione Americana per la Prevenzione del Suicidio in testa. Su Self diversi esperti hanno additato la “graphic representation” del suicidio come troppo sensazionalistica e quindi potenzialmente emulabile. Ed è stato strano vedere nel “Behind the Reasons”, speciale di Netflix dove gli autori rispondevano a tutte le domande, Brian Yorkley difendersi da quelle accuse dicendo l’esatto contrario, e cioè che aveva dipinto il suicidio in quella maniera tremenda così che tutti si accorgessero che non c’è niente di valoroso in un suicidio.

Tredici | Dietro le quinte | Netflix Italia


Tuttavia quelli morali non sono gli unici errori imputati alla serie, che più di una volta costruisce e disfa scenari in maniera troppo veloce e soprattutto inconcludente. Per fare un esempio: chi è Tony? Perché proprio lui ricopre un ruolo così importante, lui che sembra sempre molto estraneo alle dinamiche del college, che sembra appartenere ad un mondo completamente diverso. Perché Justin – che presumibilmente è il primo ad aver ascoltato i nastri – non li distrugge, in questo modo sottraendosi alla inevitabile sorte che poi gli spetta? Perché lasciano che Jess ascolti quei nastri per poi convincerla che sono solo bugie quelle che vengono raccontate? Secondo LA: «ognuno cerca di conservare il suo status quo: quello di eterosessuale (nel caso di Courtney), quello di leader morale (nel caso di Marcus), di ragazza perfetta (Sheri) o di proteggersi da accuse più gravi (Tyler)». Anche il “passaggio all’azione” una volta che Clay sembra convinto a voler rivelare tutto viene accolto quasi con scherno da Alex, seguito dagli altri ragazzi. È come se la serie offrisse la visione un universo molto complesso ma in maniera unidimensionale.

Tredici deve troppe spiegazioni, che non trova modo e tempi di dare (a meno che nella probabile seconda stagione non vengano svelate tutte le dinamiche). E questo senza contare la distanza dal libro, evidente in diversi passaggi: Clay non viene descritto come il mezzo-nerd che in realtà è, ma come un ragazzino abbastanza popolare, l’ordine dei nastri è molto diverso e la stessa scena del suicidio non è mai descritta, piuttosto viene lasciato intendere che si sia trattato di un cocktail di farmaci.

Il più grande buco però, secondo LA, sta nel comportamento di Hannah. «Viene descritta come una ragazza molto sveglia, intelligente, con una emotività forse esagerata ma comunque molto sviluppata. Ha delle capacità cognitive ben strutturate, che sono mostrate diverse volte, una fra tutte nell’ideazione dell’espediente dei nastri. È possibile che queste capacità si azzerino e che da un momento all’altro Hannah non riesca più a trovare la forza di andare avanti? Sì, però sembra tutto un po’ forzato». Ho provato a controbattere all’accusa di forzatura tirando in mezzo il solito discorso della “necessaria finzione” per uno show televisivo, uno show che è comunque diventato il più popolare nella storia di Netflix (cioè nella storia degli show popolari) e che ha fissato più in alto di prima il livello della narrazione collegiale, aprendola alla diversità culturale e sessuale. Uno show che pur servendosi di alcuni cliché, in particolare nella costruzione dei personaggi, mette in mostra una cultura diffusasi tra i giovani che facciamo quasi fatica a comprendere quanto pericolosa sia: «è molto importante ai fini educativi l’enfatizzazione della pericolosità di quella singola foto che viene condivisa. So che può sembrare un episodio quasi innocente, ma spesso succede – soprattutto tra i più giovani – che una cosa del genere dia il là a comportamenti più gravi».

Forse però tutte queste cose le fa in maniera non completa, con una moltitudine di temi che finiscono per avere poco spazio e appiattirsi dietro una serie di deduzioni e situazioni lasciate troppo alla comune immaginazione e conoscenza. Più che un punto d’arrivo, insomma, Tredici è un ottimo punto di partenza per provare a rappresentare il più difficile dei mondi possibili.