'Chiamami con il tuo nome', la quiete magica di Luca Guadagnino | Rolling Stone Italia
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‘Chiamami con il tuo nome’, la quiete magica di Luca Guadagnino

Il nuovo film del regista siciliano è un delicato romanzo di formazione gay senza bigotti da sconfiggere

‘Chiamami con il tuo nome’, la quiete magica di Luca Guadagnino

Luca Guadagnino è seduto nella stanza di un albergo di Beverly Hills, ma la sua mente è già tornata in Italia. Il regista 46enne è impegnato nella promozione di Chiamami con il tuo nome, la storia d’amore estatica di due innamorati maledetti e della loro estate memorabile e malinconica. E quando gli si chiede se si è mai ritrovato in un tornado del genere – una cotta estiva e illuminata dal sole, magari l’ispirazione per la sua sensuale nuova pellicola -, ti dà l’impressione di aver momentaneamente lasciato la stanza. È tornato con la mente all’Italia, immagina le onde una sull’altra e il suono delle cicale, forse una leggera brezza che soffia mentre cala il crepuscolo. Poi, all’improvviso, torna tra noi.

«Non ho mai avuto un’esperienza del genere», dice dopo qualche istante. «Ma so cosa si prova. Conosco il profumo di quei sentimenti, quell’odore di estate, di notte. Quando non ti dai pace e non riesci a dormire».

Ambientato nel nord Italia del 1983, Chiamami con il tuo nome racconta la storia di Elio (Chalamet), 17enne sensibile e talentuoso che prende una sbandata per Oliver (Hammer), 24enne schivo e carismatico che si è trasferito in Italia per studiare con il padre del ragazzo, Lyle (Michael Stuhlbarg). Nel giro di una manciata di giorni umidi e quieti, il teenager cerca di resistere ai suoi sentimenti verso questo straniero che sembra troppo occupato a guardare le belle ragazze del posto per notarlo. Ad un certo punto, e dopo una serie di gesti eleganti e sguardi gentili, scoppia l’amore. Ma quanto può durare? Oliver ripartirà nel giro di un paio di mesi.

È la tirannide del tempo il vero antagonista del film, non la società bigotta o la claustrofobia dell’omosessualità nascosta. Una bella coincidenza se pensiamo che Guadagnino ha aspettato anni prima di riuscire a portare sul grande schermo il suo adattamento del romanzo di André Aciman uscito ormai dieci anni fa. «All’inizio della mia carriera ero impaziente», spiega. «Volevo fare tutto adesso. Ma ero sempre deluso. In Italia non lavoriamo alla pre-produzione come a Hollywood».

All’inizio il suo ruolo era solo quello del consulente; era troppo occupato con Io sono l’amore, il film rivelazione del 2009 con Tilda Swinton protagonista. I produttori avevano bisogno di un esperto per rendere al meglio l’ambientazione storica, quindi si è ritrovato a lavorare al progetto come consulente. Ha iniziato con la sceneggiatura, collaborando con James Ivory (una nomination agli Oscar) e convinto che sarebbe stato il regista di Camera con vista a girare il film. È durante quel periodo che ha incontrato per la prima volta gli attori che sarebbero diventati Elio e Oliver.

Chalamet è stato segnalato dal suo agente, all’epoca aveva recitato un piccolo ruolo in Interstellar e qualche scena memorabile in produzioni indie come Miss Stevens. «Mi ha detto: “Questo ragazzino, l’ho appena scoperto… lo devi incontrare perché è perfetto per il tuo Elio”», ricorda Guadagnino. «Era così vivace, ambizioso nel suo desiderio di eccellere. Sembrava infaticabile, eppure era solo un ragazzino».

Si sono incontrati quattro anni fa, quando Chalamet aveva ancora 17 anni e, come Guadagnino, anche lui aveva appena capito che la produzione vera e propria di un film può partire anche dopo anni di attesa. «Sembrava tutto pronto per quella stessa estate», dice, «ma poi non se n’è fatto nulla. Abbiamo provato con l’estate successiva… e non se n’è fatto nulla». Nonostante tutto, però, si è rifiutato di abbandonare quel ruolo che sentiva così suo. «Un personaggio complesso, stratificato, contraddittorio e reale. È facile identificarsi in lui, la sua storia fa da lente d’ingrandimento sulle esperienze dei giovani». L’attesa di Hammer è stata ancora più lunga. «Ho incontrato Luca sette anni fa, uno dei meeting più affascinanti di tutta la mia carriera», dice. Il faccia a faccia non era finalizzato a nessun progetto, volevano solo conoscersi. «Abbiamo parlato per ore a casa sua, discutevamo di arte, letteratura, film… di tutto. Quando sono uscito ero convinto di averle azzeccate tutte. Ma non l’ho più sentito per qualcosa come sette anni».

«Poi un giorno è arrivata la telefonata», aggiunge. «Mi dice che ha una sceneggiatura e che vorrebbe che partecipassi al film».

Era il 2016, e Guadagnino aveva appena finito A Bigger Splash; i produttori gli avevano proposto di prendere in mano il progetto – nessuno conosceva il materiale meglio di lui – e il regista ha deciso che Chiamami con il tuo nome sarebbe stato il suo prossimo film. «Sapevo che sarei stato impegnato con Suspiria – il remake del classico di Dario Argento -, ma fare due film insieme è una sfida, mi sentivo un po’ Soderbergh. Poi, quando dici di sì, devi dedicarti a tutti i progetti al 100%».

“Vorrei fare un cinema libero da tutto quello che è superfluo”

Nonostante il regista sostenga che non aveva nessuna intenzione di prendere in mano il film, Chiamami con il tuo nome sembra perfettamente integrato nella sua filmografia (le esagerazioni romantiche e fisiche dei suoi personaggi, le location, amanti improbabili ma legati dal destino) da far pensare a molti che sia la conclusione di una specie di “Trilogia del Desiderio”, una definizione di cui non è troppo convinto. «Avevano bisogno di una frase per il press book del Sundance», spiega. «Non sapevo cosa dire del film, poi ho pensato che tutte le mie ultime pellicole erano dedicate al concetto di desiderio. Ed è così che è nata l’idea del capitolo conclusivo di una trilogia», sorride, come se lo avessero appena beccato. «Credo che fosse un modo per scappare dalla paura di essere diventato ripetitivo. Mi dicevo sempre: un altro film su ricchi che si parlano a bordo piscina…».

Quello che differenzia Chiami con il tuo nome dai precedenti, però, è l’interpretazione dei protagonisti, che durante le riprese sono diventati amici e ammiratori uno del lavoro dell’altro. E forse è per questo che sono riusciti a fidarsi durante le scene d’amore. Come dice Hammer, «quando sei l’unico nudo in una stanza di gente vestita… beh un po’ ti esalti». Poco più di dieci anni fa in molti hanno criticato un altro film dedicato a una storia d’amore gay, Brokeback Mountain, proprio per aver scritturato attori eterosessuali e un regista eterosessuale a dirigerli. Guadagnino, però, trova questa logica un insulto al suo lavoro e al modo in cui sceglie gli attori giusti per i suoi personaggi.

«Io sono gay», dice con tono monocorde. «Sono attratto dagli uomini; lo sono sempre stato. Vivo la mia vita con un compagno, un maschio. Ammiro molti artisti della comunità LGBTQ… ma non credo sia giusto definire una persona in base alla sua identità sessuale. È un concetto che mi mette a disagio. Non capisco, e non credo che la battaglia per i diritti civili – che è davvero importante, cruciale – vada a braccetto con chi accusa qualcuno per la sua identità sessuale».

Raccoglie un momento i pensieri, poi aggiunge: «Non scelgo i miei attori in base alle loro preferenze sessuali. Li scelgo perché li desidero. E li desidero perché so che provano lo stesso per me. È un’emozione molto queer, e penso che sia molto più queer di scritturare un noto gay per interpretare un personaggio gay. Chi pensa così è conservatore, sono ragionamenti parrocchiali».

Guadagnino ha portato il suo cast a Crema, dove è iniziata la pre-produzione. Secondo Stuhlbarg, però, quel tempo non è stato impiegato per scavare nelle tematiche del film, nella fugacità dell’amore e nel tremore di chi si rende conto che potrebbe aver incontrato la sua anima gemella. «Abbiamo letto tutto il film insieme, seduti attorno a un tavolo, diciamo con l’obiettivo di toccare tutto con mano», dice. «Quando abbiamo iniziato a girare, però, non parlavamo di niente del genere».

Gli attori, tutti ammiratori degli altri film di Guadagnino, non sanno spiegare come fa a creare quella trascendenza quotidiana che c’è in Chiamami con il tuo nome. «Forse è quello che fa vedere in alcune scene, gli angoli da cui mostra gli eventi?», si domanda Stuhlbarg con un’aria stordita. «Guarda queste foglie. Guarda la pioggia, guarda la cascata. In qualche modo tutte quelle scene raccontano una storia, è un linguaggio magico». L’attore scuote la testa. «La verità è che non lo so».

«I film di Luca non hanno confini», aggiunge Chalamet prima di spiegare che Guadagnino non gli ha mai fatto leggere la parte, era convinto che il suo istinto di giovane attore fosse perfetto. «Tutto quello che inserisce in un’inquadratura sconfina nella successiva. La casa è un personaggio, la città è un personaggio, il prato è un personaggio…», continua a spiegare. «C’è una scena in Io sono l’amore – Tilda Swinton fa l’amore distesa su un prato -, è la combinazione più bella di natura e umanità che io abbia mai visto in un film».

Guadagnino, che è anche un discreto cuoco, usa una metafora culinaria per spiegare il suo metodo. «Con il cibo puoi fare una minestra, o un brodo», dice. «Ma anche un consommé, che è un po’ l’essenza del brodo che ha cucinato prima. Io vorrei fare dei film-consommé, togliere tutto il superfluo». Il primo montato di Chiamami con il tuo nome durava quattro ore, e dopo tutti i tagli è arrivato a poco più di due. Il film non si ferma mai a esplicitare il senso della sua storia, ma è ancorato al terreno da un monologo incredibilmente appassionato e saggio che il personaggio di Stuhlbarg rivolge a suo figlio: gli dice di seguire il suo cuore, di non vivere una vita di rimpianti.

L’attore racconta che quando il suo agente gli ha inviato la sceneggiatura gli ha detto: «Aspetta il finale». L’attore è noto per i personaggi interpretati in A Serious Man e in alcune serie tv (Boardwalk Empire, Fargo), e si sente sopraffatto dalla reazione di critica e pubblico al suo monologo. «Sembra aver colpito nel segno, è interessante», dice. «Non avevo aspettative. Ma credo abbia provocato conversazioni meravigliose su cosa significa fare i genitori, sulla generosità e sulla compassione. È bellissimo partecipare a un discorso sulla gentilezza tra esseri umani­».

Chiamami con il tuo nome si conclude su una nota malinconica, ma la storia dei suoi personaggi non finisce qui. Il romanzo di Aciman racconta tutta la vita di Elio e Oliver, e Guadagnino ha detto di voler girare diversi sequel per mostrarla tutta. («Pensavo scherzasse», dice Hammer. «Ma più passa il tempo più mi sembra determinato a farlo davvero»). Non sappiamo se questo film è l’inizio di una cosa o la fine di un’altra, ma siamo sicuri che il regista e i suoi attori sono riusciti a catturare quell’emozione universale e agrodolce che si prova quando un’amore stagionale cresce, fiorisce e poi fa inevitabilmente il suo corso.

«Insomma, sono cresciuto in California e nei Caraibi», dice Hammer. «Ho vissuto sempre d’estate, e ho avuto relazioni intense. Da giovane pensi spesso “eccomi, sono follemente innamorato e mi sentirò così per il resto della mia vita”». «Poi, quando cresci, ti allontani dagli altri. Ma non piangere perché è finita, sorridi perché è successo».

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