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Bud, il campione e divo Superpiù

Dalla carriera sportiva in acqua ai successi al botteghino, anche senza lo storico partner Terence Hill. Per ricordarlo ora che ha messo "Un piede in paradiso"
Carlo Pedersoli, in arte Bud Spencer, foto via Facebook

Carlo Pedersoli, in arte Bud Spencer, foto via Facebook

“Grazie”. Il figlio, dicendo che se n’era andato serenamente Carlo Pedersoli, ci ha detto che questa è stata la sua ultima parola, prima di decidere di vedere se Anche gli angeli mangiano fagioli. Non stentiamo a crederlo. Quando andava a comprare il giornale, a Piazza Vescovio, a Roma, e rimaneva in macchina perché le gambe cominciavano a dargli noia, qualcuno si avvicinava sempre. Le fessure degli occhi mostravano un’espressione tra il rassegnato e l’affettuoso e a chi, puntualmente, stringeva la sua mano esprimendogli ammirazione e affetto o anche solo gratitudine perché con lui aveva imparato a essere ottimista e credere nella giustizia (anche se a volte un po’ manesca), lui rispondeva “Grazie”. Era grato, Carlo, per tutti Bud, della vita avuta. Grato e orgoglioso. Di tutta quell’esistenza che l’aveva visto rinascere cinque volte: l’infanzia a Napoli, a Santa Lucia, gli studi a Roma, appena maggiorenne il trasferimento in Brasile dove trovò occupazione nel consolato di Recife; la carriera sportiva che lo ha portato a gareggiare in tre olimpiadi (Helsinki, Melbourne e Roma, dal 1952 al 1960), da nuotatore e a fare il centroboa nella Lazio di pallanuoto; infine e soprattutto il cinema, sempre da record, ovviamente. In mezzo il ritorno in Sud America, dove fa “tutti i lavori possibili tranne il ballerino e il fantino, e solo perché fisicamente mi era impossibile”, compreso fare musica (paroliere di Modugno, Fidenco e altri), costruire strade, fare il pilota d’auto – tra Caracas e Maracaibo ancora ricordano le sue sterzate -, il chimico (la fece all’università, senza finirla) alla Dupont. Ha pure giocato a rugby e fatto una quindicina di incontri da pugile dilettante.

I successi al botteghino sono merito del pubblico. Ma quelli in acqua sono miei, solo miei

 

Non a caso inizia una delle più belle interviste che gli sono state fatte con la frase “nella mia vita ho fatto tutto”. Così ha parlato ad Andrea Esposito, per Fanpage (caro Andrea quel pugno finale te lo invidio), festeggiando i suoi 86 anni: curioso, volitivo, inquieto com’era, non resisteva a provare qualsiasi cosa. Basti ricordare che sul set di Più forte ragazzi un giorno provò a guidare l’elicottero, avendo spiato il pilota a lungo. Ci riuscì e prese il brevetto. Dopo. Non ha mai avuto paura di nulla, ma rispetto di tutto e tutti.
Era fiero di sé, ma umilissimo. Con pudore e dolcezza teneva a dirti che era stato il primo azzurro a scendere sotto il minuto nei 100 metri stile libero, lui che aveva vinto meno di quanto il suo talento meritasse (ma comunque 11 titoli italiani e due medaglie internazionali). “Con i costumi pesanti”, precisava, per far capire la portata dell’impresa. Quando, alle prime armi, lo intervistai, lui mi spiegò che se la fama era arrivata per il cinema, il suo valore lo misurava con lo sport. “I successi al botteghino sono merito del pubblico, gli devo tutto. Quelli in acqua sono miei, solo miei. Per questo non mi sono mai sentito qualcuno: se mi conoscono è merito di chi veniva al cinema, non mio”. Amava definirsi “un ottimo dilettante”. A volte diceva “anche le scimmie alla lunga imparano a recitare”. Era modesto, forse troppo, ma sapeva di aver inventato una maschera unica, capace di borbottare in un coro o di affrontare 15 persone con pugni che non facevano male e coreografie di risse che prevedevano voli, scontri improbabili e capriole. Con la stessa incredibile credibilità.

Bud Spencer e Terence Hill, ovvero Carlo Pedersoli e Mario Girotti nella locandina di “Non c’è due senza quattro” del 1984. I due si inventarono il western comico

Il Gattopardo. Tutti ricordano la coppia con Terence Hill, ma lui ha saputo essere amato come commissario e Piedone anche da solo, non ha avuto paura (in tutti i sensi) di cimentarsi con Dario Argento e Quattro mosche di velluto grigio o Carlo Lizzani con Torino nera e ha poi, a fine carriera, stupito tutti con Ermanno Olmi, in Cantando dietro i paraventi. Il terzultimo di 128 film, tanto per dimostrare che se avesse voluto avrebbe potuto vincere premi invece che far incassi miliardari: ma a lui dei parrucconi non interessava, preferiva far ridere (no)i bambini. Lui e Mario Girotti – galeotto fu proprio il set del Gattopardo, anche se casuale fu la formazione della strana coppia “il partner di Bud – confessò Terence – saltò all’ultimo minuto e arrivai io” – si inventarono il western comico, un po’ un divertito e parodico viaggio alla Leone del Far West tutto da ridere, un po’ Armata Brancaleone. Forse l’ultimo grande genere di successo nel mondo del nostro cinema, tanto per capire.
Insieme, per quelli come il sottoscritto, che è nato negli anni ’70, furono gli eroi dell’infanzia. Anzi i supereroi, visto che quei pugni sembravano superpoteri. Buoni e cialtroni, sempre capaci di mettersi nei guai, risolvevano tutto a cazzotti, sulle note dei fratelli De Angelis. Sempre con gli stessi archetipi: Hill era figo, indolente e furbo, lui iracondo e sempre disposto, alla fine, ad aiutarlo e a farsi gabbare. Ha detto bene il giornalista Marco Esposito, uno che di solito scrive bene di politica e altri argomenti molto seri: “oggi, per me, è come se fosse morto Jeeg Robot o Mazinga”.

Sapeva quattro lingue “e il napoletano. Io sono un napoletano verace”. Gli bastò uno stage a Yale per imparare l’inglese, il resto lo fece il successo al cinema: in Sud America lui e il suo sodale facevano incassi da kolossal, in Germania Bud è così famoso che oggi dalla Bild in giù tutti i quotidiani tedeschi gli danno un posto in prima pagina e della sua autobiografia, Altrimenti mi arrabbio: la mia vita (scritta con Lorenzo De Luca, con cui ha fatto il curioso e gustoso Mangio ergo sum: dialoghi e ricette insegnate ai filosofi più grandi del passato: sì, era anche un filosofo il nostro Carlo) lì han dovuto fare un sequel.
Bud Spencer: da Budweiser e Spencer Tracy. Una birra e un divo. Forse è la scelta dello pseudonimo che ce lo racconta meglio. Non aveva paura di guardare in alto, di puntare al massimo, ma sapeva che cos’era starsene con i piedi per terra, a soffrire e mangiar polvere. Che fosse di stelle o meno. Perché lui aveva combattuto nell’acqua per un decennio e l’acqua sa farti volare ma può anche portarti a fondo.

Mio caro Superfantagenio, ora che hai messo Un piede in paradiso e potrai magari scoprire se Lo (o li?) continuavano a chiamare Trinità e chiedere se Anche gli angeli mangiano fagioli e se è vero che Dio perdona… io no, lasciatelo dire: siamo Nati con la camicia perché ti abbiamo visto, vissuto e accompagnato per un pezzo della tua meravigliosa avventura. Ciao Bomber, Bulldozer, Piedone, mentre sfrecci lassù con la tua Dune Baggy salutaci I 4 dell’Ave Maria. Altrimenti ci arrabbiamo.

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