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Al cinema con Rolling: Paolo Virzì convince, Gigione spacca

'Ella & John' entusiasma, il doc sul cantante è già cult. Il resto è Gary Oldman

Paolo Virzì è sempre più una certezza, anche nella trasferta americana. La vera sorpresa però è Valerio Vestoso con il suo documentario Essere Gigione, uno sguardo su un fenomeno musicale (e non solo) di grande lucidità e di forte impatto.

“Ella e John – The Leisure Seeker” Voto: 8,5

Paolo Virzì romantico e sensibile lo è sempre stato. Lo nascondeva all’inizio dietro il cinismo livornese, che è la posa di un popolo empatico e dissacrante, lo celava dietro una visione del mondo feroce, quando si trattava di scartavetrarne ipocrisie, ideologie, pregiudizi. Continua a farlo, ma mettendo al centro l’animo di personaggi cesellati in ogni dettaglio, amandoli con più tenerezza. Tanto che in questo road movie – da Wenders a Sorrentino, da sempre un genere “rifugio” per gli esordi statunitensi dei grandi autori europei – lo sguardo sull’America è lieve, attraverso qualche pennellatta, ma il film lo vivi dentro e ai piedi di quel camper (il Leisure Seeker del titolo originale), nel duetto Helen Mirren-Donald Sutherland che tocca ogni nota, dalla disperazione alla rabbia, dalla dolcezza alla comicità, dalla gioia bambina al dolore lacerante. Il regista si dedica a loro, al loro amore, a quella memoria che va alimentata anche se è un secchio bucato, al racconto di una relazione che va oltre le convenzioni, nella sua normalità. L’America è uno sfondo, una serie di accenni e suggestioni (da alcuni critici miopi americani viste come “cartoline”) che serve a recuperare i tasselli di un puzzle e a ricomporlo, forse per la prima volta. Il ritmo viaggia su una tensione sentimentale che sa spiazzarti senza cercare la forzatura, su una regia sicura e umile, al servizio di due grandi interpreti e di una scrittura che è quasi uno spartito. Lo è anche la colonna sonora impreziosita da pezzi come Me and Bobby McGee, che incarna lo spirito del film: dolce, coinvolgente, originale e capace di prenderti a pugni cuore e stomaco al momento giusto. Perché un “sono così felice quando torni da me” vale molto più di un banale “ti amo”. E qui il merito è anche dei co-sceneggiatori Piccolo, Amidon e Archibugi, va detto.

“Essere Gigione” Voto: 7,5

Il ballo del pisello, Lecca Lecca (col mitico ritornello Le le le lecca le), La campagnola che sfondò anche al Maurizio Costanzo, la sua versione de La isla bonita, Padre Pio (ma ha cantato anche la Madonna di Loreto, quella di Pompei e di Lourdes, San Francesco, Santa Rita e Papa Francesco che “gli vogliamo bene tutti quanti, un grande applauso tutti quanti! Chistu è ‘nu Papa che me piace”), Trapanarella e Te piace ‘o biscotto. Ecco i magnifici sette pezzi del mitico Gigione, metà icona trash e metà mito popolare, che in parte sentirete anche nel film bello e sorprendente del regista sannita Valerio Vestoso. Luigi Ciaravola è l’idolo incontrastato di un sud (nel senso di tutto ciò che è sotto Roma, anche di pochi chilometri) che trovi nelle piazze, nei bassi, nelle cucine delle casalinghe che vedono rete 4 ma urlano di gioia quando lo trovano su TeleUniverso, ma anche di una provincia che corre sull’Appennino. Ed è un caso musicale e antropologico di incredibile interesse. La grande intuizione di Vestoso è seguire Gigione, senza pregiudizi ma con curiosità, intervistandolo e mischiandosi ai suoi ammiratori, ai suoi seguaci, perché l’importante “è mettere due ritornelli di ripresa che la gente possono cantare insieme a te”. A te, non a me, perché Gigione in prima persona non parla mai: preferisce la terza, come Maradona, a volte la seconda e quando si sente generoso la prima plurale. Il regista con un montaggio serrato e belle idee di narrazione e visive alterna il presente e il passato (filmati amatoriali con la capigliatura giovanile di Gigione che fa paura), ci porta a conoscere l’entourage (compreso il figlio, in arte Jo Donatello) ma anche chi lo segue come un guru – le milf che si sciolgono al suo passaggio, bambini e anziani su tutti: commovente l’incontro con la giovanissima Ileana, che in lui trova consolazione alla sua durissima condizione -, ci fa conoscere uno spaccato sociale, culturale, emotivo che non immaginiamo, tutti rinchiusi come siamo nei nostri snobismi. In questo documentario troviamo l’uomo, il mito, che spesso si autoafferma con aneddoti tipo “Gigione nasce a 8 anni” – perché essere Gigione vuol dire vivere da Gigione (da) sempre – la consolazione di uomini e donne che hanno bisogno della sua allegria, della sua energia, di quei ritornelli ingenui e facili da ripetere in cui si riconoscono. Lo fa con una macchina da presa attenta ai dettagli, alle facce, alle voci, agli occhi, ai movimenti. E alla fine quasi canticchi pure tu i pezzi stracult di questo crooner da saga, da piazza, da tv privata, umile e tronfio, ironico e grottesco, perché lui è uno, nessuno e centomila. Lui siamo pure noi.

“Il sacchetto di biglie” Voto: 6,5

Si avvicina il Giorno della Memoria e arrivano, giustamente, i film sull’Olocausto. Un tempo avevano una visione ampia e storica, ora sono diventati, con la giusta distanza accumulata in questi decenni, più elaborati, particolari, spesso inseriti anche in un cinema di genere che, forse, ha anche contribuito a sfrondarli di qualche rigidità. Un sottogenere ormai decisamente di successo è quello che porta quell’enorme tragedia ad altezza di bimbo, da La vita è bella a Il bambino con il pigiama a righe. Il sacchetto di biglie, pur senza picchi, sa portare uno sguardo altro, quello di chi alla sua infanzia, alle sue biglie, non ha rinunciato, nonostante la consapevolezza dell’orrore che si stava abbattendo sulle sue deboli spalle. Viviamo tutto sentendo il dolore infantile di chi perde l’innocenza, magari perché suo padre è costretta a cacciarla via con uno schiaffo, perché deve insegnargli a non morire, a non avere paura. Preparate i fazzoletti, perché nulla vi sarà risparmiato. Ma nulla sarà sopra le righe. Ed è giusto raccontarlo così l’Olocausto: perché la memoria rischia di scomparire, i bambini hanno nonni che non l’hanno vissuto e serve che tutti noi manteniamo vivo e vivido il ricordo di ciò che non dovremo essere mai più.

“L’ora più buia” Voto: 6

Come a scuola si fa media, alla fine dell’anno, tra scritto e orale, costretti a dare un voto, dobbiamo dare un 7.5 a Gary Oldman e un 4,5 a Joe Wright. Sì, perché è giusto concentrare un’opera sull’incredibile performance di un grande attore – qui più che mimetico -, ma non lo è impigrirsi e affidarsi alle sue qualità e alle proprie per dimenticarsi tutto il resto. La sufficienza, peraltro, la diamo solo alla versione originale perché nel doppiaggio (pur ottimo) di Stefano De Sando si perdono inevitabilmente molti dei particolari del lavoro certosino dell’interprete britannico reduce dalla vittoria ai Golden Globe su Winston Churchill, a partire da uno studio quasi maniacale delle gutturalità borbottanti dello statista, delle incertezze di un oratore straordinario ma inusuale per toni e ritmi, di alcuni suoni che emetteva quell’uomo che rappresentò il baluardo della democrazia pur nascondendo in sé un bambino fragilissimo, iracondo, imprudente. Wright come in Espiazione si accontenta di alcune scene madri eccellenti – come testimonia il piano sequenza iniziale di quel film, che fa impallidire il Dunkirk di Nolan – ma sul complesso dell’opera e della storia si adagia su schemi facili, a volte su scene di raccordo sciatte e su uno script bidimensionale, teso com’è a dare tutto solo in alcune sequenze e adagiarsi sulla vena straordinaria di Oldman. Alla fine, il sapore è quello di un’occasione persa sebbene anche il più pacifista, dopo l’ultimo di scorso di Churchill, sarebbe pronto ad arruolarsi. E uscito fuori dalla sala hai un’insopprimibile voglia di invadere la Germania.

“Insidious – L’ultima chiave” Voto: 3

Ancora Lin Shaye (è pure nel terribile The Midnight Man), ancora Insidious (siamo al quarto capitolo). Se è vero come ha detto Luigi Di Capua dei The Pills a Stracult che tutti i quarti capitoli di una saga sono inguardabili (siamo d’accordo, ad esclusione forse di Rocky), è pure vero che c’è un limite a tutto. Persino alla credulità di uno spettatore medio di horror che sa di essere un bancomat – gli propinano di tutto e lui torna sempre, come un tossico, a vederli (il sottoscritto per primo) – e spesso si accontenta di prodotti medi se non mediocri. Ma qui pretendono da noi di essere così fessi che neanche la biondina svestita e il nero di turno in un qualsiasi splatter, vorrebbero che avessimo paura dell’equivalente di uno zio che ci fa bu da dietro la porta. Scordate l’originale di James Wan, che non era un capolavoro ma si difendeva, qui abbiamo gli scarti di tutte le case stregate del cinema, una protagonista che non ha carisma e non suscita empatia (mentre tu sogni fortissimo che arrivi Franca Leosini a farle vedere come si fa) e una sceneggiatura che deve essere caduta prima dell’inizio del set e poi rimessa insieme con le pagine spaiate.
P.S.: Va detto, però, che Insidious 4 dà una nuova accezione al proverbio “la casa nasconde ma non ruba”.

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