La disputa legale tra Blake Lively e Justin Baldoni è molto più che una scaramuccia tra star | Rolling Stone Italia
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La disputa legale tra Blake Lively e Justin Baldoni è molto più che una scaramuccia tra star

Un aggiornamento sugli ultimi sviluppi della vicenda, e una certezza: la lite tra i due suona tanto come la prima dell'era post #MeToo

(da USA) Blake Lively Justin Baldoni

Blake Lively (a sinistra) e Justin Baldoni (a destra)

Foto: Adela Loconte/WWD/Getty Images; John Nacion/Variety/Getty Images

Da quasi un anno, mi ritrovo a dedicare una quantità insolitamente grande di spazio mentale a due persone che, a essere sinceri, prima occupavano poco o nulla nei miei pensieri: Blake Lively e Justin Baldoni.

Da persona che usa internet e legge le notizie (lo so, sono un unicorno raro), i dettagli della faida in corso tra i due attori sono stati praticamente ineludibili. Da quando, la scorsa estate, hanno cominciato a circolare voci di tensioni tra i due durante il lancio del film It Ends with Us – Siamo noi a dire basta, TikTok, i tabloid e persino il New York Times hanno iniziato a documentare ossessivamente ogni nuovo sviluppo di quella che è ormai una battaglia legale incredibilmente caotica. Perfino Taylor Swift è stata trascinata nella vicenda. L’ultimo colpo di scena è arrivato lunedì, quando un giudice ha respinto una causa da 400 milioni di dollari che Baldoni aveva intentato contro Lively e suo marito, Ryan Reynolds. Ma tra accuse e controaccuse, è diventato difficile orientarsi – e ancora più difficile capire perché tutto ciò stia occupando così tanto spazio nei media.

Eppure, per quanto la vicenda sia complessa, ha anche rivelato molto dei meccanismi dietro le quinte di Hollywood e dell’influenza centrale che publicist e avvocati esercitano nell’industria. Forse ancora più interessante, però, è il modo in cui tutto ciò mi ha fatto riflettere sulla costruzione dell’immagine delle celebrità agli occhi del pubblico – e su dove siamo arrivati oggi, a quasi otto anni dall’esplosione del movimento #MeToo.

Ma per cercare di capirci qualcosa, dobbiamo prima parlare di Blake Lively…

Credo sia giusto dire che il fascino collettivo attorno a questo caso non sarebbe lo stesso se non coinvolgesse Blake Lively, 37 anni, che da tempo è una presenza fissa nella vita delle donne Millennial (e degli uomini gay, come il sottoscritto) grazie ai suoi ruoli iniziali nei film 4 amiche e un paio di jeans e, naturalmente, in Gossip Girl. Proprio per via del suo personaggio glamour e scandaloso nella serie della CW, Lively è diventata subito materiale da tabloid. I giornali scandalistici hanno documentato con avidità le sue relazioni con il fidanzato sullo schermo Penn Badgley e poi con il co-protagonista di Lanterna Verde, Ryan Reynolds, che ha sposato (com’è noto in un campo) nel 2012.

Ma i suoi progetti successivi hanno lasciato molto a desiderare. Lively è diventata famosa soprattutto per essere… Blake Lively: alta, slanciata, bellissima e sospettosamente perfetta – una sorta di santa patrona dell’era di Instagram. Influenzata dal mondo Goop, ha lanciato prodotti e siti web, ma i suoi progetti creativi sembravano banali e poco ispirati. Intorno al 2016, era più famosa per far parte della “Squad” di Taylor Swift, per le sue apparizioni al Met Gala e per il modo “relatable” in cui lei e Reynolds si prendevano affettuosamente in giro sui social, che per film o serie in cui appariva (direi che l’unica cosa davvero interessante fatta da Lively nell’ultimo decennio è stato Un piccolo favore del 2018, perché lì ha giocato apertamente con la parodia della propria immagine pubblica da “perfezione incarnata”).

Tutto ciò per dire che gran parte della fama di Lively si è costruita attorno a un’immagine pubblica accuratamente confezionata – il che, a conti fatti, è un modo rischioso di costruirsi una carriera a Hollywood, perché ti rende vulnerabile a un pubblico sempre pronto a sbirciare dietro le quinte.

E qui entra in scena Justin Baldoni…

Prima di questo gate, Baldoni, 41 anni, era noto soprattutto per aver interpretato il rubacuori protagonista della telenovela Jane the Virgin. Dopo la fine della serie nel 2019, ha iniziato a dirigere film strappalacrime – A un metro da te (2019) e Nuvole (2020), entrambi incentrati su storie d’amore vissute all’ombra di gravi malattie – ma la sua immagine pubblica si è andata costruendo soprattutto attorno al suo ruolo di “nemico della mascolinità tossica”. Nel 2017 ha lanciato un talk show online su questo tema, The Men’s Room, seguito da un libro e un podcast. Eppure, nonostante tutto, Baldoni ha sempre avuto l’aria di uno che si sforza troppo di essere un #Alleato, come se fosse Nev Schulman che proclama: «Quest’ascensore è libero da abusi». Proprio come con Lively, le persone hanno cominciato a chiedersi se non fosse tutta una messinscena.

E ora arriviamo all’ultimo pezzo del puzzle: It Ends with Us

Nel 2019, la casa di produzione di Baldoni, Wayfarer Studios, ha acquisito i diritti di It Ends with Us, romanzo bestseller del 2016 firmato da Colleen Hoover, che all’epoca aveva già venduto oltre un milione di copie ed era stato tradotto in 20 lingue. Il libro è esploso nuovamente nel 2021 grazie a una valanga di video virali e in lacrime su TikTok, che lo hanno riportato in cima alla classifica del New York Times. In breve: è un romanzo amatissimo dai fan, e questo significava che un adattamento cinematografico avrebbe inevitabilmente attirato moltissima attenzione.

It Ends with Us racconta la storia di Lily Bloom (Lively), una fiorista di Boston – sì, il nome è proprio quello – alle prese con una relazione abusiva con il neurochirurgo Ryle Kincaid (interpretato da Baldoni, che è anche il regista del film), e con il ritorno nella sua vita di Atlas Corrigan (Brandon Sklenar), il fidanzato dell’adolescenza che l’aveva aiutata a sopravvivere a un padre violento.

Le riprese sono iniziate solo nel 2023 – per poi essere interrotte per mesi a causa degli scioperi della WGA e della SAG-AFTRA. Il film è finalmente uscito nell’agosto 2024, ma…

… le cose hanno iniziato a crollare ben prima dell’arrivo in sala.

Il lancio del film è stato, per usare un termine scientifico, un disastro. Su TikTok, utenti particolarmente attenti hanno iniziato ad analizzare il tour promozionale del film con la stessa ossessione di Charlie nel celebre meme di C’è sempre il sole a Philadelphia. Perché Baldoni e Lively non sono mai stati fotografati insieme? Erano mai nello stesso posto, allo stesso momento? Perché Baldoni seguiva tutti i colleghi del cast su Instagram, ma nessuno di loro lo ricambiava? Perché Baldoni promuoveva il film come un dramma cupo sulla violenza domestica, mentre Lively sembrava più concentrata sul romanticismo e i fiori? E perché stava contemporaneamente lanciando una linea di alcolici e una di prodotti per capelli?

Già nel weekend di uscita in sala, il dramma era impossibile da ignorare. Secondo fonti citate da The Hollywood Reporter, il conflitto si sarebbe concentrato su una «frattura tra i realizzatori nella fase di post-produzione, durante la quale sarebbero emerse due versioni differenti del film».

Un altro momento chiave: il giorno dopo l’uscita del film nelle sale, la giornalista norvegese Kjersti Flaa ha caricato su YouTube un vecchio video intitolato L’intervista a Blake Lively che mi ha fatto venire voglia di lasciare il lavoro. Il video – risalente al 2016, durante il tour promozionale di Café Society di Woody Allen – mostra un’intervista tesa in cui Lively, incinta, appare infastidita già dal commento iniziale di Flaa sul suo «pancino» e dalle domande sui costumi del film. In seguito, Flaa ha detto al New York Times che il tempismo dell’upload è stato casuale, ma l’effetto è stato quello di alimentare la percezione – già in circolazione online – che Lively fosse, in segreto, una Mean Girl, proprio mentre esplodeva il presunto scontro con Baldoni.

Eppure, nonostante tutto il caos fuori dal set, il film si è rivelato un successo, incassando quasi 350 milioni di dollari – una cifra 14 volte superiore al budget di produzione di 25 milioni.

La verità è che tutto questo sarebbe probabilmente svanito… se non fosse stato per quello che è successo dopo.

È molto probabile che la vicenda sarebbe finita come quella del tour promozionale di Don’t Worry Darling (2022), se non fosse stato per un’inchiesta bomba pubblicata dal New York Times a metà dicembre. Il quotidiano ha rivelato che Baldoni, già durante l’estate, aveva assunto un’esperta di crisis PR, la quale aveva dichiarato di poter “seppellire” la reputazione di Lively. L’articolo rivelava inoltre che Lively aveva presentato una denuncia formale al California Civil Rights Department, accusando Baldoni di comportamenti inappropriati durante e dopo la produzione. In quella denuncia, e nella successiva causa intentata contro Baldoni, Lively sosteneva che l’attore e James Heath, CEO di Wayfarer Studios, l’avessero molestata sessualmente e avessero orchestrato una campagna stampa per rovinarle la reputazione, causandole «forti sofferenze emotive».

Nella causa, Lively dichiarava di aver preteso – prima della seconda fase di riprese cominciata nel gennaio 2024, dopo gli scioperi – un incontro per porre una serie di condizioni necessarie a fronteggiare il «clima di lavoro ostile». Secondo quanto riportato, anche Ryan Reynolds era presente a quell’incontro. Le richieste di Lively – che Baldoni e Heath avrebbero accettato – implicavano che i due uomini avessero parlato di sesso o mostrato materiale pornografico in sua presenza, descritto i propri genitali, improvvisato scene di baci, fatto irruzione nel suo camerino mentre era svestita, e parlato segretamente con il suo personal trainer per convincerla a perdere peso per il ruolo (Baldoni in seguito ha dichiarato di essere stato «scioccato» da quelle accuse «inventate» e di aver accettato le condizioni solo per permettere la ripresa del film).

Lively ha inoltre affermato che, come parte del piano per «distruggerle» la reputazione, Baldoni avrebbe collaborato con i suoi PR per diffondere notizie e contenuti social – tramite un vero e proprio «esercito digitale» – pensati per screditarla pubblicamente.

La notizia della denuncia legale di Lively e della strategia mediatica di Baldoni ha rapidamente spostato la simpatia dell’opinione pubblica a favore dell’attrice. Le sue colleghe in 4 amiche e un paio di jeans – America Ferrera, Amber Tamblyn e Alexis Bledel – hanno diffuso una dichiarazione congiunta a suo sostegno, affermando di averla vista «trovare il coraggio di pretendere un ambiente di lavoro sicuro» durante le riprese di It Ends with Us. Anche Colleen Hoover ha appoggiato Lively, definendola «onesta, gentile, disponibile e paziente». Baldoni, al contrario, ha cominciato a subire conseguenze: un premio ricevuto da un’associazione per l’empowerment femminile gli è stato revocato, e la co-conduttrice del suo podcast, Liz Plank, ha dato le dimissioni.

All’improvviso, la battaglia si è spostata dalla stampa all’aula di tribunale…

Non appena Lively ha avviato la sua azione legale, Baldoni ha risposto a tono. Ne sono seguiti mesi di accuse e controaccuse, comunicati stampa e smentite ufficiali, oltre a una causa per diffamazione intentata da Baldoni contro il New York Times. Al centro sia della sua denuncia contro il quotidiano, sia della maxi-causa da 250 milioni di dollari presentata a gennaio contro Lively, Reynolds e la loro addetta stampa, c’è l’accusa secondo cui il giornale avrebbe «selezionato ad arte» alcuni messaggi [di Baldoni], privandoli del contesto, per «ingannare» i lettori – un’accusa che il Times ha smentito categoricamente. «È ironico, e dolorosamente ipocrita, che Blake Lively accusi Justin Baldoni di aver usato i media come arma, quando è stato proprio il suo team a orchestrare questo attacco feroce inviando al New York Times documenti gravemente manipolati prima ancora di depositare la denuncia», ha dichiarato il suo avvocato Bryan Freedman.

Secondo Baldoni, è stata Lively ad aver usato l’ufficio stampa per trovare un «capro espiatorio» dopo quella che definisce una «catastrofe mediatica autoinflitta» durante la promozione del film. A suo dire, il team PR fu assunto solo a scopo difensivo. Come parte della sua strategia, Baldoni ha creato un sito web per condividere con il pubblico prove e documenti relativi alla causa. Tra questi figura una serie di messaggi tra i due attori, incluso uno in cui Lively lo invitava nella sua roulette per provare alcune battute mentre tirava il latte. Baldoni ha inoltre pubblicato le riprese integrali di una scena di ballo in cui, secondo Lively, lui avrebbe improvvisato un bacio sul collo: Baldoni sostiene che il video smentisca la versione dell’attrice. Il team di Lively ha risposto che si tratta comunque di «materiale compromettente», ma il giudice ha in seguito stabilito che il filmato non mostrava alcuna condotta non professionale.

Nella versione dei fatti di Baldoni, è Lively ad aver fatto la parte della bulla sul set.

Nella sua denuncia, Baldoni accusa Lively di avergli «scippato» il film, prendendo il controllo dei costumi, della sceneggiatura e del montaggio attraverso minacce di abbandonare la produzione se non le fosse stato concesso il controllo creativo. Con vere e proprie «minacce estorsive», sarebbe riuscita a ottenere il permesso di realizzare un proprio montaggio del film – a cui Baldoni non avrebbe mai avuto accesso – e che lui e lo Studio sarebbero stati poi costretti a distribuire. Sempre secondo la sua versione, Lively avrebbe imposto allo Studio di concederle il credito di produttrice e di rimuovere Baldoni dai materiali promozionali e dai poster, arrivando anche a convincere i colleghi del cast e la stessa Hoover a «escluderlo». Baldoni afferma infine che avrebbe potuto partecipare alla première del film solo a condizione che lui e la sua famiglia lasciassero il red carpet prima dell’arrivo di Lively e assistessero alla proiezione in una sala separata.

Anche Ryan Reynolds non ne è uscito benissimo. Oltre ad aver presumibilmente «insultato» Baldoni durante il famigerato incontro di gennaio, avrebbe tentato di convincere gli agenti di quest’ultimo ad abbandonarlo definendolo un «predatore sessuale». Secondo quanto riportato, Reynolds avrebbe anche creato un personaggio parodico ispirato a Baldoni – un femminista di facciata chiamato Nicepool – nel film Deadpool & Wolverine, personaggio poi eliminato da Ladypool, doppiata dalla stessa Lively.

Chi desidera una cronologia dettagliata delle dichiarazioni ufficiali e dei documenti depositati in tribunale può trovarla altrove (ci vorrebbero almeno altre 4000 battute per raccontarla tutta), ma uno degli sviluppi recenti più significativi è arrivato con una decisione del giudice federale incaricato del caso: a inizio mese, ha stabilito che Lively non potrà portare avanti la denuncia per «stress emotivo», un’accusa che – secondo il suo team legale – era già pronta a ritirare. Il team di Baldoni ha affermato che Lively si stava rifiutando di concedere accesso ai referti medici che avrebbero potuto dimostrare eventuali sofferenze psicologiche.

Ed è qui che entra in scena Taylor Swift.

Baldoni ha dichiarato che Lively avrebbe «strumentalizzato» la sua amicizia con Swift per convincerlo ad accettare la riscrittura di una scena chiave ambientata su un tetto, facendo in modo che sia la cantante sia Reynolds lodassero pubblicamente la versione modificata da Lively.

In un messaggio successivo – che ha fatto rotolare gli occhi a metà internet – Lively si è paragonata a Daenerys Targaryen di Game of Thrones, suggerendo che Swift e Reynolds fossero i suoi draghi: «Io sono Khaleesi, e come lei, ho un paio di draghi. Nel bene o nel male, ma di solito nel bene. Perché i miei draghi proteggono anche chi difendo. Quindi alla fine ci guadagniamo tutti grazie a questi miei splendidi mostri».

A maggio, il team legale di Baldoni ha emesso una citazione per convocare Swift in tribunale, nel tentativo di scoprire esattamente cosa Lively le avesse raccontato durante le riprese. Hanno anche sostenuto che Lively avesse in qualche modo ricattato la popstar per ottenere il suo supporto pubblico, minacciando altrimenti di rendere pubblici alcuni messaggi privati tra loro due – un’accusa che il giudice ha successivamente respinto. Lo stesso team ha poi ritirato la citazione.

Ma poi è arrivata la sentenza shock.

Lunedì, il giudice Lewis J. Liman ha emesso un verdetto in cui respinge tutte le cause intentate da Baldoni contro Lively, Reynolds e il New York Times. Secondo il giudice, Baldoni non è riuscito a dimostrare che le azioni di Lively durante la lavorazione del film fossero «estorsione illecita piuttosto che una legittima negoziazione o rinegoziazione delle condizioni lavorative», né che avesse subìto danni reali a causa di tali azioni. Ha inoltre stabilito che Baldoni non ha fornito prove sufficienti per dimostrare che Lively avesse mosso accuse diffamatorie al di fuori di quelle contenute nella denuncia ufficiale al California Civil Rights Department (che per legge sono considerate privilegiate), o che Reynolds, la loro addetta stampa o il New York Times avessero «seri motivi per dubitare della veridicità di tali affermazioni», come richiesto dalla legge in materia di diffamazione.

Tuttavia, il giudice ha lasciato aperta a Baldoni la possibilità di intentare una nuova causa, limitatamente a due capi d’accusa: violazione del “patto implicito di buona fede” e interferenza dolosa con un contratto.

Gli avvocati di Lively, Esra Hudson e Mike Gottlieb, hanno definito la sentenza «una vittoria totale e una completa riabilitazione» della loro assistita. «Come abbiamo sempre sostenuto, questa causa da “400 milioni di dollari” era una farsa, e la Corte l’ha capito benissimo», hanno dichiarato.

E così ci troviamo in una posizione piuttosto singolare.

Con l’inizio di un eventuale processo fissato al 9 marzo 2026, ci attendono ancora mesi di limbo e di accuse incrociate.

Da parte loro, Reynolds e Lively sembrano ben consapevoli dell’attenzione mediatica che li circonda. Durante lo speciale per il 50esimo anniversario del Saturday Night Live, Reynolds ha scherzato sulle innumerevoli notizie negative. Quando Tina Fey gli ha chiesto come stessero andando le cose, lui ha risposto con ansia: «Benissimo. Perché? Cosa hai sentito?!».

Perché, a questo punto, stabilire chi ha ragione è una questione di opinione.

Ci sono angoli dell’internet in cui Baldoni viene ormai considerato la vera vittima della vicenda, mentre altri continuano a sostenere Lively, paragonando il trattamento che ha ricevuto sui media a quello subìto da Amber Heard e criticando la tendenza pubblica a cercare sempre la «vittima perfetta». In fondo, la battaglia per il nostro giudizio morale è ancora in corso – solo che ora si combatte attraverso documenti legali. Quanto di ciò che leggiamo in queste cause è davvero destinato a un giudice o a una giuria? E quanto, invece, è pensato per il pubblico? «Queste sono, in larga parte, campagne di PR travestite da cause legali», ha detto a Variety Gregory Doll, avvocato esperto in contenziosi nel mondo dello spettacolo. «Ma le cause legali hanno comunque i denti».

L’intera saga mette anche in luce quanto sia prefabbricata la nostra percezione delle celebrità.

Se vi siete mai chiesti perché proviate una certa antipatia istintiva verso una star, la faida Lively-Baldoni è l’esempio perfetto di quanto l’immagine pubblica delle celebrità sia plasmata dai loro uffici stampa. Il più delle volte, cercano di farci piacere i loro clienti – ma quando sbagliano il tono, l’effetto può essere devastante (basti pensare al contraccolpo subìto da Anne Hathaway durante la corsa agli Oscar, quando fu percepita come troppo affamata di quel riconoscimento; tranquilli, si è ripresa). Ma sappiamo anche che, per proteggere un cliente, i PR possono spostare l’attenzione su qualcun altro, alimentando titoli negativi con l’aiuto di editori compiacenti o fingendo indignazione online tramite account fake – come sarebbe accaduto in questo caso, secondo le accuse rivolte a Baldoni. Questo consente ad altri media di coprire l’“indignazione” senza sembrare pedine mosse dalla volontà diretta di un addetto stampa.

È anche impossibile non vedere questo intero caso come un termometro sul movimento #MeToo.

La condanna di Donald Trump per molestie sessuali ha, per molte persone, cancellato gran parte dell’eredità del movimento #MeToo e della sua promessa di conseguenze e responsabilità. Persino Andrew Cuomo sta cercando di tornare in auge.

Ma il dramma di It Ends with Us mostra anche quanto sia cambiato il contesto da quando, nel 2017, sono emerse le storie su Harvey Weinstein che hanno dato il via al movimento #MeToo. In particolare, questo cambiamento è dovuto al processo di Amber Heard e Johnny Depp – la prima grande vicenda di celebrità dopo l’inizio del movimento in cui è diventato socialmente accettabile dichiarare di non credere alle accuse di una donna. Oggi TikTok è invaso da video in cui le persone affermano di non credere alla «narrazione» che Lively sta diffondendo. Non sono cambiate solo le nostre politiche. «Non siamo più nell’era del #MeToo. Lo standard del “credere alle donne” non è mai davvero diventato uno standard», ha scritto Doreen St. Felix sul New Yorker parlando del caso Lively-Baldoni. «Ciò che conta è quale versione della storia è più adatta alla politica dei nostri tempi».

In fin dei conti, siamo un po’ come quel tipo dei “Sickos” nel cartone dell’Onion, che sbircia dalla finestra e canta: «Sì… AH AH AH… Sì!»

Il pubblico sarà sempre ossessionato da una succosa e subdola faida tra due star di Hollywood. È una tradizione, come ci ha ricordato Ryan Murphy, che risale a Joan Crawford e Bette Davis. Quindi la lotta tra Lively e Baldoni era destinata a diventare un evento mediatico. Ma dato che entrambe le star avevano anche un’immagine pubblica così accuratamente costruita, per molte persone è stato un piacere quasi sadico vederle smontate o, quantomeno, smascherate per il lavoro che è stato fatto nel costruirle.

Da Rolling Stone US