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‘John Lennon: Murder Without A Trial’, anatomia di un omicidio (e di un processo)

L'8 dicembre 1980 Mark David Chapman sparò cinque colpi di pistola a Lennon (ne andarono a segno quattro). Oggi una docuserie (su Apple TV+) indaga la mente dell’autore di uno degli omicidi più incomprensibili e drammatici di sempre

Foto: Apple TV+

Si potrebbe pensare malignamente che l’uscita di John Lennon: Murder Without A Trial sia stata programmata scientificamente per comparire sugli schermi in concomitanza col clamoroso ritorno dei Beatles, più ancora che per il quarantatreesimo anniversario della scomparsa di Beatle John. In realtà, la miniserie diretta da Nick Holt e Rob Coldstream e prodotta per Apple TV+ da 72 Films, era in lavorazione da un paio d’anni e semmai, se proprio vogliamo essere complottisti ad ogni costo, giunge nel momento più florido di sempre per il fenomeno del true crime da salotto.

Date le premesse, com’è facile intuire, l’obiettivo della serie non è tanto quello di raccontare la figura di Lennon, o quantomeno dell’ultimo Lennon, ma piuttosto di indagare la mente dell’autore di uno degli omicidi più incomprensibili e drammatici di sempre. Di Mark David Chapman, come del resto di Lennon, abbiamo conosciuto praticamente ogni cosa, soprattutto grazie a svariati libri e a un paio di lungometraggi come Chapter 27, prodotto hollywoodiano con protagonisti Jared Leto e Lindsay Lohan, e al meno conosciuto The Killing Of John Lennon di Andrew Piddington. Tuttavia, nessuno fino ad ora era riuscito a narrare con tale dovizia di particolari tutto quello che avvenne dal momento dell’arresto di Chapman al giorno della sentenza definitiva. Un lavoro maniacale reso possibile solo grazie alla possibilità di accedere a documenti e filmati fino a ora secretati e dunque non di pubblico dominio. Quindi, oltre alle ormai note vicende biografiche di Chapman precedenti il tragico evento (l’ossessione per il libro The Catcher In The Rye (in italiano Il giovane Holden) di Salinger, per i Beatles e, soprattutto, per John Lennon), veniamo a conoscenza delle testimonianze di coloro che assistettero in prima persona alla sparatoria o che arrivarono sul luogo del delitto pochi istanti dopo.

Una carrellata di testimoni capace di comprendere tanto il portiere e la guardia giurata del Dakota Building, quanto i poliziotti accorsi a dare i primi soccorsi a Lennon e a portarlo disperatamente in ospedale senza attendere l’arrivo dell’ambulanza, passando per l’autista della limousine della coppia e persino per un tassista giunto di fronte al palazzo pochi secondi prima dell’esplodere della follia di Chapman. Un climax ascendente che raggiunge il suo apice al momento delle dichiarazioni dell’autista che, suo malgrado, condusse Chapman a casa della sua vittima: “Era strano e molto agitato. Mi disse di essere il produttore dei Rolling Stones e di aver appena assistito alle registrazioni del nuovo album dei Beatles, appena riformatisi in segreto. Ma il suo taccuino era completamente bianco e appena chiesi qualcosa in più cambiò subito umore”. Come sappiamo, non era la prima volta che Chapman si recava a New York per compiere il suo folle gesto, ma questa volta la rabbia verso colui che nella sua mente “parlava di no possessions e poi viveva nel lusso più sfrenato” ebbe il sopravvento.

Se però catturare Chapman fu estremamente semplice, arrivare ad una condanna portò allo scoperto tutte contraddizioni di un sistema giuridico che da una parte prevedeva, tra le varie possibilità, anche la condanna a morte e dall’altra faceva troppo spesso abuso dell’attenuante dell’insanità mentale. Ed è proprio su questo scontro che si muove il grosso della serie: sul comprendere quanto Chapman fosse consapevole di quello che stava facendo. Come spiegato bene da uno dei primi poliziotti intervenuti sul luogo del delitto: “Quando un uomo commette un crimine del genere c’è sempre un valido motivo e, soprattutto, non rimane pietrificato davanti alla propria vittima con la pistola in mano. La cosa più incomprensibile era capire cosa fosse passato nella mente di un uomo che, quando arrivammo, si scusò per averci rovinato la serata”. Un uomo che era arrivato a sposare una donna di origine asiatica solo per sentirsi più vicino a quello che era stato il suo idolo di gioventù. Lungi dal voler trovare qualche tipo di alibi o anche solo dal farci sembrare l’assassino stesso una vittima, la serie prova comunque a insinuare in noi il dubbio che Chapman non fosse poi così lucido come la sua condanna volle dimostrare.

Mark David Chapman. Foto: New York State Department of Corrections via AP

Le testimonianze di vecchi amici e conoscenti, in effetti, mettono in luce una persona sì intelligente e capace di vivere nella società, ma allo stesso tempo anche molto disturbata. Così come è assolutamente ficcante il paragone con il folle che, pochi mesi dopo, cercò di uccidere Ronald Reagan e che venne trovato come Chapman con in mano una copia del libro di Salinger. Ma se a quest’ultimo venne diagnosticata una grave forma di schizofrenia, chi ebbe a che fare con Chapman fu meno drastico. Anche per questo colpisce la frase del suo difensore al processo: “La differenza sta solo nel fatto che il mio assistito abbia ucciso la persona sbagliata”. Anche alla luce di ciò, resta comunque davvero difficile riuscire ad empatizzare anche solo per qualche secondo con lui. E ad echeggiare, sui titoli di coda, continuano a restare le parole di Lennon che aprono la serie: “Nessuno ha mai voluto dare una vera possibilità alla pace. Ci hanno provato Gandhi e Martin Luther King e ad entrambi hanno sparato”.

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