Ci sono attori che, nonostante il talento, passano un’intera carriera senza ricevere il giusto riconoscimento, passando da un ruolo di spalla o di mezzo caratterista all’altro senza la possibilità di avere l’occasione giusta da protagonista. Spesso è un problema di faccia, di fisico, o semplicemente di carattere, per cui c’è quello destinato a fare il personaggio ambiguo, o il tenerone o il cattivissimo.
E poi ci sono quelli che non riesci mai a inquadrare, e sono loro quelli in pericolo, la specie non in estinzione, ma che non segue un processo evolutivo. Ecco, Will Poulter fa parte di questa specie qui. È uno di quegli attori bravissimi, ma che non riesci a posizionare. In carriera ha fatto di tutto. Il ragazzino ingenuo e buonissimo in una commedia anche piuttosto sopra le righe, Come ti spaccio la famiglia. Era uno dei ragazzi prigionieri nel labirinto nella trilogia di Maze Runner, e se non l’avete vista non vi diciamo altro. Soprattutto, è stato il rappresentante di OxyContin nella magnifica serie Dopesick, personaggio che cambia registro tre volte, gestito magnificamente, ma sempre all’interno di un prodotto corale. Come è Death of a Unicorn, in cui lui è di gran lunga la cosa migliore di un film mediocre, e come è Warfare – Tempo di guerra, il film di Alex Garland e Ray Mendoza che racconta un evento realmente accaduto nel corso della guerra in Iraq allo stesso Mendoza, ex Navy Seal oggi consulente militare per il cinema.
Will Poulter e Ray Mendoza sul set di ‘Warfare’. Foto: Murray Close/A24
Una pattuglia dell’esercito americano assediata in una casa a Baghdad, film dal realismo quasi insopportabile a momenti in cui Poulter interpreta il tenente che guida la squadra in questo inferno. E lo fa con una misura tipica degli attori britannici, scuola eccezionale. Lui, londinese di Hammersmith, un po’ di soddisfazione se le è tolte. Nelle ultime stagioni di The Bear il suo Chef Luca ruba la scena ogni volta, così come l’Adam Warlock di Guardians of the Galaxy Vol.3. Gli manca tanto così per fare il salto, intanto sceglie attentamente, prossimamente lo vedremo nel secondo film da regista di Boots Riley, sette anni dopo il bel Sorry to Bother You, dal titolo I Love Boosters, al fianco di Eiza Gonzalez. Intanto lo abbiamo incontrato a Londra per parlare di Warfare, che finalmente è arrivato nelle sale italiane (dal 21 agosto) distribuito da I Wonder Pictures.
Will, Warfare ha una precisione dei gesti e delle procedure militari unica nel cinema bellico. Quanto ci avete messo ad assimilarle?
Quello che si vede sullo schermo sono strategia e comportamento tattico dei Navy SEAL. Quindi abbiamo dovuto imparare e capire come operare in spazi diversi, sia all’esterno che all’interno, prima di tutto come squadra, come muoversi da un punto all’altro e in altre circostanze con obiettivi diversi. Dovevamo imparare il maggior numero possibile di varianti, in modo che quando ci veniva data una direzione o un ordine, potessimo eseguirlo in modo efficace. Era fondamentale non solo rappresentare ciò che era sullo schermo, ma anche trasmettere la sicurezza necessaria all’interno del gruppo. E anche scavare un po’ più a fondo. Il campo di addestramento di tre settimane e mezzo che abbiamo seguito era un mix di esercizi fisici, addestramento all’uso delle armi in sicurezza e comunicazioni con me. Abbiamo fatto molte prove, gli ambienti della casa li delimitavamo con del nastro adesivo sul pavimento e costruendo dei muretti. Ray e Alex sono stati al nostro fianco per tutto il tempo, giorno dopo giorno, per ore e ore.
Il film trasmette molta tensione al pubblico. Com’era l’atmosfera durante le riprese?
L’esperienza che si vede sullo schermo e che si può provare come spettatore è stata in parte vissuta da noi sul set, perché quel tipo di intensità, quella severità, quel senso di minaccia e di costrizione era qualcosa in cui dovevamo credere e immergerci completamente. Penso fossimo tutti costantemente consapevoli del fatto che, per fortuna, non dovevamo sopportare quella situazione nella realtà, ma era comunque molto coinvolgente. Allo stesso tempo, c’erano una tendenza alla leggerezza, allo scherzo, al divertimento, un modo per superare i momenti difficili che fa parte del cameratismo militare naturale e genuino che abbiamo sviluppato sul set, che ha reso l’atmosfera più equilibrata e ci ha permesso di finire questa maratona.
Ci sono scene molto crude nel film. Il boot camp vi ha preparati anche a costruire l’empatia nei confronti dei vostri compagni feriti in azione?
I campi di addestramento servono a entrambi gli scopi. Ci hanno permesso di lavorare su delle abilità, anche se in versione ridotta e limitata, sufficienti per simulare l’azione in modo realistico. L’altro scopo, altrettanto importante, se non di più, era sviluppare legami autentici tra di noi, in modo da ridurre il livello di recitazione. Quando vedi uno dei tuoi compagni in quello stato, ti tocca il cuore, non devi immaginare o inventare.
Warfare è un film claustrofobico, il pensiero costante è che non ci sia via d’uscita. Alex Garland ha detto che gran parte del film lo ha fatto il set della casa.
Già al campo di addestramento il reparto scenografia aveva fatto un lavoro fantastico, perché potevamo interagire con l’ambiente a 360°, sia il cast che la troupe. La casa non sembra neanche un set, era completamente funzionante, a parte l’impianto idraulico aveva tutto, elettricità compresa. Si poteva entrare in ogni singola stanza di ogni piano, e questo ha reso l’esperienza più coinvolgente, autentica e, sì, claustrofobica.
Warfare è un film sulle conseguenze della guerra. Ma come Civil War, è anche una storia sulla follia degli uomini. Qual è il tuo punto di vista?
Con tutto il rispetto, non la descriverei come una storia sulla follia degli uomini. Ma sono d’accordo che riguarda le conseguenze della guerra, e penso che ciò che lo rende diverso da film che lo hanno preceduto nel genere è che cerca di essere contro la guerra quanto un film di guerra può esserlo. Ha uno sguardo diretto alle conseguenze negative della guerra, è un’esplorazione della perdita per chiunque sia stato coinvolto in un contesto bellico, e non romanza nulla, non drammatizza, non manipola le emozioni con nulla che non sia verità e fatti realmente accaduti. Non c’è musica, basta dire questo. La sceneggiatura è più simile a una trascrizione, tutti i dialoghi sono tecnici, come le comunicazioni radio, ogni evento è supportato da ricordi e resoconti incrocaiti di ciò che è accaduto quel giorno. Tutti elementi che contribuiscono a far sì che Warfare sia un film che si distingue e si distinguerà dagli altri film di guerra.
