Vittorio Storaro: «Io che aspetto la luce perfetta? Una leggenda, non è vero niente» | Rolling Stone Italia
Empire of light

Vittorio Storaro: «Io che aspetto la luce perfetta? Una leggenda, non è vero niente»

Sì, ok: Bertolucci, ‘Apocalypse Now’, Woody Allen. Ma cosa c’era prima? Com’è nato tutto? Uno dei “cinematografi” (definizione sua) più grandi di sempre si racconta a Rolling. Come forse non aveva mai fatto

Vittorio Storaro: «Io che aspetto la luce perfetta? Una leggenda, non è vero niente»

Vittorio Storaro

Foto: Riccardo Gallini/GRPhoto per La Settima Arte Cinema e Industria

Incontrare Vittorio Storaro al Grand Hotel di Fellini è già troppo cinema tutto insieme, e lo nota persino lui: «Tra I vitelloni, Amarcord e compagnia… certe immagini le ho tutte qui». Storaro, in quasi 83 anni di vita, ha già raccontato tutto: Bernardo Bertolucci e Francis Ford Coppola, Warren Beatty e Woody Allen, i tre Oscar (Apocalypse Now, Reds, L’ultimo imperatore) e tutta la gloria ricevuta e meritata. Lo incontro appunto a Rimini dove, la sera stessa, riceverà il premio ad honorem del festival La Settima Arte Cinema e Industria, che quest’anno, tra gli altri, premia anche Edwige Fenech. Lo scrivo perché un paio d’ore dopo, al Teatro Galli, Storaro sarà l’unico ad alzarsi in piedi quando la diva sale sul palco – per poi sussurrarglielo all’orecchio: “Ti ho fatto la standing ovation”.

Seduto con me a un tavolino della Sala Tonino Guerra (sempre a proposito del troppo cinema), il maestro della luce, come da dicitura ormai ufficiale, è inarrestabile. E ha voglia di ricordare, forse per la prima volta in questa (dis)misura, quello che è stato da giovanissimo. Il resto è la storia che sappiamo. Mi racconterà dei grandi errori della sua vita, e anch’io ne commetto uno: avrei dovuto chiedergli come prima cosa di Coup de chance, l’ultimo film di Woody che aspetto febbrilmente, ma parto dall’inizio. Purtroppo o per fortuna. Perché, tra Charlie Chaplin e Domenico Modugno, il negozio di fotografia e i primi set, viene fuori molta più roba, in questi cinquanta minuti di chiacchierata (dovevano essere venti) prima che la macchina che lo attende me lo porti via. Tranquilli però: ci sono anche Bernardo, Francis, Woody. In un tempo – anche verbale – che passa continuamente dal presente al passato. Il tempo del cinema, forse.

Vorrei chiederle, innanzitutto, qual è il suo primo ricordo non da professionista del cinema, ma da spettatore.
È la prima volta che mi viene fatta questa domanda, e mi fa molto piacere darle la risposta. Dunque, avevo sei-sette anni, mio padre faceva il proiezionista alla Lux Film. La Lux Film degli anni ’50, quella di Gualino, i suoi produttori esecutivi erano Carlo Ponti e Dino De Laurentiis, per dirle il livello. Mio padre e il suo assistente proiettavano i film soprattutto per quelli che li dovevano comprare per l’estero. Gli facevano vedere Anna, i film di Germi… A un certo punto cambiarono il proiettore, e quello vecchio lo misero in un deposito. Noi abitavamo in una casa al pianterreno alla periferia di Roma, vicino a via Cave, dove c’era un piccolo giardinetto. Un giorno arriva mio padre con questo affare, dice a me e mio fratello di aiutarlo a dare una pittata di bianco al volo sul muro del giardinetto, poi prende una cassetta della frutta, ci mette questa cosa sopra e inizia a proiettare delle immagini sul muro bianco. Era Charlie Chaplin. Noi eravamo seduti su delle seggioline e mi ricordo ancora che, alzando gli occhi, c’era tutta la gente del palazzo che guardava di sotto, un po’ come Nuovo Cinema Paradiso. Rimasi scioccato da quelle immagini, solo molti anni dopo scoprii che erano di Luci della città.

Un imprinting che aveva già la luce nel titolo.
È la prima cosa che ricordo in assoluto. Poi c’è stato l’errore più bello della mia vita. Il primo. Dovevo fare gli esami di ammissione alla scuola media, perché all’epoca funzionava ancora così. Ma ero un discoletto e infatti, dopo averli dati, sapevo che non era andata bene. Vado a leggere i risultati: “Storaro Vittorio: italiano 4, matematica 3, geografia 2”, e via così. Dall’1 al 5 c’erano tutti, ma nemmeno un 6. Quindi non vengo ammesso e mi prendo un bello scappellone da mio padre, che poi mi dice: “Da oggi tu vai a studiare in una scuola di fotografia”, che peraltro era proprio dietro casa. Voleva proiettarmi verso lo studio del cinema, delle immagini…

Vittorio Storaro con Pupi Avati a La Settima Arte 2023. Foto: Riccardo Gallini/GRPhoto per La Settima Arte Cinema e Industria

Suo padre aveva visto il suo talento prima di lei.
Sì, però avevo 11 anni e non mi potevano pagare gli studi alla Duca d’Aosta (la scuola di fotografia, nda). Perciò andai a lavorare. Mia mamma mi trovò un lavoretto in un negozio di fotografia a 300 metri dalla scuola. Arrivavo lì col tram alle tre del pomeriggio e pulivo i pavimenti dello studio, poi le bacinelle, poi preparavo gli sviluppi… Per cinque anni ho migliorato a poco a poco quella che era la pratica del mestiere, ed è stata la mia fortuna.

E arriviamo, se ho fatto bene i conti, ai 16 anni.
Mio padre, che mi vede formato, va da uno dei più importanti direttori della fotografia dell’epoca, Piero Portalupi, l’unico con una laurea in ingegneria e con un contratto fisso alla Lux. Faceva tutti i grandi film, compresa, sembra, la struttura di Ben-Hur: siccome parlava l’inglese, quando le troupe di Hollywood giravano a Roma chiamavano lui come seconda unità. Mio padre va da lui e gli dice: “Senta ingegnere, mio figlio la prossima settimana finisce gli studi di fotografia, non è che può prenderlo come secondo o terzo aiuto?”. E Portalupi risponde: “Caro Renato, no”. Ed è il secondo bel no della mia vita. “Tuo figlio ha studiato fotografia, ma noi facciamo fotografia per il cinema. Mandalo al Centro Sperimentale, quando poi avrà finito sarò ben lieto di averlo come assistente”.

Sono pronto a un terzo “no”.
E infatti… Vado al Centro Sperimentale per chiedere il bando di concorso. “Ma lei è troppo giovane”, mi dice la signora della segreteria, “ci vogliono 18 anni”. Avevo studiato, lavorato, ma non bastava. “E mo’ che faccio”, mi dico. Trovo a Monte Mario una piccola scuola di cinema, due anni di corso tenuti da professori che erano direttori della fotografia mancati, avevano lavorato magari in televisione come direttori delle luci, come si diceva allora. Per me era importante continuare ad essere uno studente, quindi ci vado. Certe cose sul piano tecnico le sapevo già, ma mi fu utile. Due anni dopo torno al Centro Sperimentale.

Non mi dica che…
Eh, aspetti… C’è la stessa signora, non si ricorda di me ma io di lei benissimo. “Le devo dare brutta notizia”, mi fa, “hanno cambiato il bando di concorso, ora ci vogliono 20 anni”. “Signora”, le dico, “io non so più che studi fare”. “Ci provi comunque”, mi risponde lei, “valuterà la commissione”. E lì capii che era un momento fondamentale: o prendevo quel tram o stavo nello studio a ritoccare le foto dei morti, perché all’epoca facevo anche quello. C’erano degli agenti che andavano per le case, prendevano la fototessera del nonno, la fotografavano e poi io la ritoccavo con l’inchiostro di china per la futura lapide. Allora mi metto a prepararmi per il bando. Mi dicono che le domande arrivate sono 500 e i posti solo tre. Bisognava scattare una serie di foto, stamparle e presentarle. Dopo la prima scrematura restiamo in 27. La mattina dell’esame, uno di fianco a me mi dice: “Io sono tranquillo, mio padre ha già parlato col direttore”. Quindi non solo ero fuori età, c’erano pure i raccomandati!

Mi dica dell’esame.
Entro in quella grande aula, ci sono quindici professori. Davanti a me mi ritrovo l’ingegner Innamorati, me lo ricordo ancora. Mi fa una domanda sulla dicitura del gamma, una roba tecnica che avevo studiato su quei libroni dell’epoca. Erano già le due meno un quarto, erano tutti agitati perché volevano andare a pranzo, e io inizio a parlare di cose che avrebbero fatto addormentare pure un sonnambulo, e non smetto mai… Mi hanno dato il primo posto, con tanto di borsa di studio di trentamila lire.

E comincia la vita al Centro Sperimentale.
C’erano tanti direttori della fotografia famosi, ma la figura fondamentale per me fu il professor Ventimiglia, che aveva quasi ottant’anni: lui mi diede tutta la tecnica che, mi rendevo conto, capivo meglio degli altri. Tra il primo e il secondo anno mio padre parla ancora con delle produzioni e chiede se possono prendere suo figlio a titolo gratuito. E allora mi ritrovo a seguire due film, prendo il tram che va su alla Titanus e vado sui set di quelle commedie che si facevano in quegli anni, e che però mi sono molto utili. Dopo il primo film uno degli assistenti – anzi no, un consegnatario delle macchine, perché all’epoca c’era tutta una gerarchia nei ruoli – mi fa: “Ma che ce stai a fa’ al Centro Sperimentale, nun te insegnano niente, ne ho conosciuti un sacco che vengono da lì e nun sanno un cacchio, perché non vieni qui a lavorare?”. E io dico di no, perché prima voglio finire gli studi.

Oggi nessun giovane lavoratore del cinema darebbe tutta questa importanza alla formazione.
No no, oggi non succede più. Io, nel bene e nel male, non accettai di entrare subito nella professione. Anche se, durante gli anni del Centro Sperimentale, ho sempre continuato a lavorare. “C’è Marco Scarpelli che deve fare una cosa in CinemaScope”, mi dicono sempre in quel periodo. All’epoca quelle macchine avevano due obiettivi, per cui servivano due persone per fare i fuochi. E allora mi ritrovo a fare questi film di Mario Mattioli, il primo era Appuntamento a Ischia con Modugno e Mina…

1960 Appuntamento a Ischia le Scene Più Belle Girate a Ischia

Mi racconta il suo esordio vero e proprio?
A 21 anni. Dopo le prime esperienze come secondo aiuto e un solo film da assistente, fu sempre Scarpelli a dire: “Senti regazzi’, méttite in macchina che ne sai molto di più di tanti che conosco”. Il film era di Ugo Tognazzi, Il mantenuto. Me lo ricordo ancora.

Insieme alla tecnica è nato anche l’amore per il cinema?
Quello più tardi. Al Centro Sperimentale avevamo un bravissimo professore di storia del cinema che era fissato con gli anni ’20 e ’30, e io rimanevo sempre un po’ deluso. Mi piaceva solo Charlie Chaplin. I russi, Vertov e compagnia, non li capivo. Ma avevano ragione loro: ero troppo giovane. Poi, quando ho iniziato a lavorare, sono diventato un habitué del Rialto, dove facevano tutti i film d’essai, e lì ho imparato ad amare il cinema.

Questo suo racconto sull’attesa, su una formazione così lunga prima di dirsi pronto a lavorare, mi fa venire in mente un passaggio nel nuovo libro di Marina Cicogna, Ancora spero, che produsse un film a cui lei lavorò: Le orme. Dice che il suo è “un talento che non gli permetteva di scendere a compromessi. Se la luce non era come aveva deciso lui, bisognava aspettare il momento giusto e tornare a girare in condizioni migliori”. Quindi anche quella era un’attesa. Della bellezza, forse.
Diciamo la verità: non era proprio così. Molti miei colleghi, quando poi hanno visto Il conformista e Apocalypse Now, hanno cominciato a dire: “Certo, quello se non c’ha la luce giusta non gira e fa aspettare tutta la produzione”. Macché… Le orme poi era un piccolo film, mica si poteva aspettare, non so come la Cicogna si sia inventata quella storia. Il regista era Luigi Bazzoni, fratello di Camillo, che poi sarebbe stato determinante nella mia vita. Oltre ad essere stato per un po’ anche mio cognato.

Oddio, quante storie, non le sto dietro.
Camillo era un mio grande amico, operatore anche lui, di Salsomaggiore. Io avevo la tecnica, ma lui era molto più colto di me. Andavamo tutte le domeniche a vedere le chiese, facevamo le foto, e un giorno la mia fidanzatina portò sua sorella, che poi si mise con lui. Fu lui a farmi conoscere i veri registi. Mi proponevano molte cose ma io non mi sentivo pronto, oppure non mi piaceva la storia, o il regista. Io vedevo il regista come un padre spirituale, e fino a quando non accettai Giovinezza giovinezza di Franco Rossi non trovavo niente in cui ci fosse un vero valore. E poi Camillo mi fece conoscere Bertolucci.

Foto: Riccardo Gallini/GRPhoto per La Settima Arte Cinema e Industria

Eccoci.
Dopo i miei ottimi inizi come operatore, ci fu una crisi del cinema. Son rimasto a casa per un anno, e lì ho capito che dovevo studiare, riprendere i libri…

Una formazione che non finisce mai.
Sì, ma Camillo viene e mi dice: “Tu non puoi restare fermo a casa, ti ricordi Scavarda?”. Scavarda era un direttore della fotografia che avevo conosciuto sul set di un documentario. “Andiamo con lui a Parma”, mi dice Camillo, “c’è un giovane regista che mi sembra molto interessante, almeno torni a lavorare”. Io ero un po’ titubante, però tempo prima a casa di Daniele Danza, un regista televisivo, avevo letto una frase che teneva sul tavolo: “Avere il coraggio e l’umiltà di ricominciare tutto da capo”. Mi rimase impressa.

L’incontro con Bertolucci.
Prima della rivoluzione, 1963. La proposta era di fare da assistente a Scavarda. Io non volevo atteggiarmi come quello che fino all’altro ieri era stato l’operatore di macchina più giovane d’Italia. “Non c’ho lavoro”, mi dicevo, “ora sono l’assistente e lo devo fa’ bene, in questo momento io sono questo”. E credo di aver fatto il più bel film come assistente. Era complesso, all’epoca Bernardo usava tutti quegli zoom… Quello che mi scioccò è che la mattina arrivava col mirino e guardava lo spazio immaginandosi le inquadrature. Poi chiamava il carrellista, gli faceva mettere giù la macchina, e poi diceva a Scavarda di controllare. Scriveva con la macchina da presa. Ho scoperto dopo che era figlio di uno scrittore e poeta (Attilio Bertolucci, nda), e che da ragazzino andava con suo padre e altri critici e intellettuali a vedere i film in questi club di Parma. Il cinema gli era rimasto in mente, poi aveva provato anche lui a fare lo scrittore ma aveva capito che sarebbe rimasto all’ombra del padre. Quando arrivò a Roma e conobbe Pasolini, e poi la Morante, e Moravia, e tutta quella compagnia lì, allora la cosa del cinema lo prese molto. Io dico che Prima della rivoluzione è il suo primo vero film, La commare secca l’aveva scritto Pasolini e si vedeva, era proprio un film di Pasolini. Quello che ho imparato da Bernardo come assistente di Prima della rivoluzione, e che mi ha dato uno stimolo incredibile, è cosa può essere il movimento della macchina da presa. Un movimento che è proprio scrittura.

Insieme avete inventato “la luce di Bertolucci”.
E anche lì molti colleghi dicevano: “Eh, con Bernardo poteva aspettare la luce giusta”. Ma non è vero niente. Quando abbiamo fatto Strategia del ragno eravamo dieci persone in tutto, non avevamo neanche il gruppo elettrogeno. Poi c’è stato Il conformista, e lì ancora di più ho capito che Bernardo è abituato a lavorare in sequenza. Se giriamo la scena 1, lui fa prima l’inquadratura 1, poi la 2, la 3, e così via, tutto di seguito. Se adesso dovesse girare la storia di Vittorio e Mattia che si incontrano per fare un’intervista (per un attimo penso che sia vero e mi corre un brivido lungo la schiena, nda), magari comincerebbe dal telefono che si accende, e poi l’inquadratura si allarga, e poi decide di mettere un totale dove si vede mio figlio che sta aspettando… Se io dicessi “Possiamo fare tuti i primi piani suoi e miei e poi facciamo i totali che c’è la luce più bella?” lui direbbe di no, perché la prima inquadratura fa nascere la seconda, e poi la terza, e la quarta. Quando abbiamo fatto Novecento c’era una lunga scena al tramonto, ma abbiamo comunque iniziato a girare alle nove di mattina, e dovevamo fare come se fosse sempre il tramonto. “Fa’ come ti pare, trova le tue soluzioni, ma io devo girare così”, mi diceva Bernardo, e in questo aveva ragione. Raccontando la storia in ordine anche la luce andava di pari passo, e in qualche modo aveva un senso. Ma io non potevo aspettare un minuto.

Novecento Best Scene

(La macchina che deve portare Vittorio Storaro al Teatro Galli è arrivata, il nostro tempo sta finendo.)

Mi dica una cosa su Coppola.
Francis vede Il conformista al New York Film Festival, si innamora del film, anzi diventa pazzo, si fa fare una copia in 16mm e lo fa vedere a Gordon Willis (il suo storico direttore della fotografia, nda) e a tutti, e poi mi chiama per fare Apocalypse Now. “Ma che c’entro io con un film di guerra?”, gli dico. E lui: “Ma non è un film di guerra, leggiti questo librettino e capirai”. E io allora leggo Cuore di tenebra di Conrad.

Woody Allen, mannaggia a me che non gliel’ho chiesto come prima cosa.
Il più grande scrittore che ho mai conosciuto. E il più grande regista di attori che ho mai conosciuto.

Negli ultimi anni ha scelto di lavorare solo con lui.
Abbiamo fatto cinque film. La prima volta ero appena tornato dall’Iran, dove ero stato due anni per un film sulla vita di Maometto bambino (Muḥammad: Rasūl Allāh di Majid Majidi, nda), e non volevo fare niente, perché dopo un film così – e come, in passato, L’ultimo imperatore o Apocalypse Now – non ti viene subito voglia di farne un altro, hai bisogno di riposarti, di rigenerarti. Mi chiama il mio agente di Los Angeles e mi dice: “Woody amerebbe che facessi un film con lui, si intitola Café Society”. E io gli dico: “Fammi mandare almeno la sceneggiatura, qualcosa che posso leggere”. E lui: “Ma Vittorio, se ti chiama Woody Allen non gli chiedi la sceneggiatura”. E io: “No no, proprio perché mi chiama lui la chiedo”. Io devo sempre sapere che film è, se mi riguarda o non mi riguarda, se posso trovare un’idea figurativa da proporre al regista oppure no. Non voglio dire sì a un film su cui poi non so cosa fare. “Quindi se mi manda la sceneggiatura bene, se no arrivederci e buongiorno”, chiudo. E lui me la manda con un biglietto: “Vittorio, don’t worry if you don’t feel in the mood. We are so young that we can do another movie together”.

E invece lei quella volta non ha aspettato.
Ho preparato tutta una cosa sulla pittura e la fotografia degli anni ’30 e ’40 tra New York e Hollywood. Gliel’ho fatta vedere e lui mi ha detto: “È perfetta, è proprio quello che ho scritto”.